Anno I — N. 6 10 giugno 1963 Lf astrolabio problemi della vita italiana il feudo INCHIESTA DI ERNESTO ROSSI PAPPI : I TIMOPI DEL GOVEPNATOPE CAPLI GIOLITTI: PPOGPAMMAZÌONE . STEPILIZZATA Il VATICANO DOMANI PICCARDI: RICORDO DI UNITA' POPOLARE | JEMOIO: GIOBBIO: I MISSILI INUTILI DELL' EUROPA | le ambizioni modeste L’ASTROLABIO • Via XXIV Maggio, 43 . Roma Mondo Operaio Rassegna mensile di politica economia cultura Direttore: Francesco De Martino Condirettori: Gaetano Arfé e Antonio Giolitti Una copia lire 150 — Abbonamento annuo lire 1500 Direzione, Redazione e amministrazione: Via del Corso 476 — Roma scuola e città Sommario del n. 5 Direttore: Ernesto Codignola maggio 1963 Lamberto Borghi: Scuola e sviluppo di comunità. Risposta a Dina Bertoni dovine — Jean Giraud: L educazione civica nei collegi francesi di istruzione tecnica — Antonio Santoni Rugiu; Il posto delle attività nella scuola media, 2 — Francesco Francescaglia: Attitudini e orientamento — Roger Gal: Lo scuola media in Francia. OSSERVATORIO Maria Gloria Barontini Parigi e Ciriaco Pietro Costantini: Una iniziativa di democrazia scolasti¬ ca nel Mugello: il GIM — Un'esperienza di democratizzazione della scuola in un liceo veronese — R. C.: Il convegno nazionale di studio sull’edilizia per la nuova scuola media — Sculture per i giochi dei bam¬ bini — Notizie. Abbonamento annuo per il 1963: per l’Italia: L. 2500; per l’estero: 3000. Direzione: Via delle Mantellate, 8 — Red. e Amm. cLa Nuova Italia», P. Indipendenza, 29 — Firenze IL PUNTO Opinioni e documenti della settimana Colloquio tra socialisti e cattolici, attiva presenza italiana nella politica interna¬ zionale, crisi del comuniSmo: sono i temi di fondo che nei suoi sette anni di vita « Il Punto » ha affrontato chiamando ad esprimersi personalità responsabili di un vasto settore politico, fornendo così sui vari temi la possibilità di un im¬ mediato confronto di idee, di considerazioni e di contributi. In questo quadro anche i fatti della cultura trovano ne « Il Punto » la loro espressione in quanto aspetti significativi dell'azione e dei giudizi di una classe dirigente la quale deve vivere questi anni difficili della nostra costruzione democratica con un impegno sempre sincero ed organico. IL PUNTO è il settimanale del centrosinistra diretto da Vittorio Cale) Dire», e Ammin.: Via del Babuino 85 • Roma . Abbon. annuali: L. 4000 Italia, L. 10.000 Europa t L’astròlabio problemi della vita italiana Anno I _ N. 6 10 giujsno 1963 DIRETTORE: FERRUCCIO FARRI n;l prossimo NUMERO La storia del COMITATO ni REDAZIONE Lamberto borghi — luigi fossati _ anna Garofalo — Alessandro galante garrone Gino luzzatto — Leopoldo ficcardi — erne- STO ROSSI — PAOLO SYLOS-LABINI — NINO VALERI — ALDO VISALBERGHI Redattore res^ponsabile : Euigi Ghersi Sommario EDITORIALE: Un Papa del nostro tempo.5 JERKOV: I problemi del nuovo pontificato .... 6 SEGRE: Le alternative del P.S.1.10 PARRI: I timori di Carli . . . . ..8 ClOLITTI: Programmazione sterilizzata,.18 EICCARDI: Ricordo di Unità Po|Hdare.15 JEMOLO: Le ambizioni modeste.18 ROLIS: La Francia dopo De Canile.19 SALVADORI: Birmingham e la Luna.20 CIOBBIO: I missili inutili dell Europa.22 ROSSI: I feudi deH’ingegner Pesenti.25 Luzzatto : Una sinistra più responsabile.30 Battaglia : La funzione delle minoranze.31 ENRIQUES: I>!ttera aperta a Malagodi e La Malfa ... 32 PICCARDI: Una postilla.34 RAMAT: I privilegi della Polizia.36 LIBRI: Anna Garofalo: « L’amico dell'anima » • Ala¬ dino: « I conservatori nazionali » .... 38 Una copia L. 100. arretrata il doppio. Abbonamenti: annuo L. 2300. estero il «oppio, sostenitore L. 5000. Versamenti sul c.c.p. n. 1/40736 intestato al Periodico L’AstroIobio. La pubblicità si riceve presso la amministrazione dell’Astrolabio. Tarine: una Pàgina 150 mila lire, mezza pagina 80 mila lire. Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 8861. Tipografia GATE - Via dei Taurini, 19. Roma. Distribuzione nelle librerie: ?Da, via Andegari, 4 - Milano - Telefoni 80435. 870488. Distribuzione nelle edicole: STE, via Predabissi, 3 - Milano. Spedizione in abb. post. Gruppo II. monopolio banane GLI «AIUTI» ALLA SOMALIA di Ernesto Rossi if Per ragioni di spazio siamo sfati costretti a rinviare al N. 7 la se¬ conda puntata di: La chiesa nella politica italiana. VEKTQ DI CROCIATA di Domenico Settembrini LETTERE Il Vaticano e Franco Caro Direttore, la lettera di Giusy Macrì, rela¬ tiva al mio articolo ” Il Vaticano e Franco ”, mi obbliga a fare alcune considerazioni. Credo di conoscere abbastanza bene ” gli errori del go¬ verno repubblicano ”, ma ciò no¬ nostante, questo fu l’unico gover¬ no legale e l’aggressione clericofa- scista contro la Repubblica Spa¬ gnola, proprio a causa delle sue debolezze, fu doppiamente crimi¬ nosa e vile. Un’altra faccenda poi è la questione se ” il terrorismo di¬ lagante ” sia stato la causa o la conseguenza del complotto contro tale Repubblica. A mio avviso, era la conseguenza di una situazione disperata e non la sua causa. Quan¬ to alla grossolanità del ” gioco di¬ plomatico della Chiesa”, di essa esistono tali e tante prove, alle quali potrei aggiungere (e non lo faccio, semplicemente per motivi di spazio) qualche testimonianza che io stesso sono riuscito a rac¬ cogliere negli ambienti del clero spagnolo. Se poi la narrazione dell’insieme delle vicende, passate e odierne spagnole, dimostri o no ” che l’uni¬ ca carta valida, oggi, da giocarsi nell’interesse della democrazia in Spagna, è purtroppo nelle mani di quello che diverrà il partito dei cattolici ” è un problema a sé. Per¬ sonalmente non riconosco cittadi¬ nanza politica ai partiti confessio¬ nali, cioè extrapolitici, che non so¬ no strumenti dell’interesse popo¬ lare ma servono altre finalità. No¬ nostante ciò, credo che in questo momento sia positivo il ruolo di ogni spagnolo (cattolico o ateo) che lotti per la caduta della ditta¬ tura fascista. Parlando dei Popola¬ ri di Don Luigi Sturzo, Antonio Gramsci scriveva che ” i popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del prole¬ tariato italiano... Come potrebbe, per quali vie potrebbe la concezio¬ ne socialista del mondo dare una forma a questo tumulto, a questo brulichio di forze elementari? Il cattolicismo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amal¬ gama, ordina, vivifica e si suici¬ da” ("L’Ordine Nuovo”, I, N. 24, 1 novembre 1919). Senza condividere del tutto que¬ sto giudizio di Gramsci, anche per¬ ché espresso in un'epoca diversa dalla nostra, mi pare che esso pos¬ sa ancora contenere in se qualche germe della verità attuale. Ma que¬ sto ci porterebbe ad un lungo di¬ scorso sulla natura e sul significato del partito cattolico. La Spagna in questo momento certamente non attende da noi trattati di teoria politica, ma una solidarietà espres¬ sa in modo ben diverso. Fraternamente ANTONIO JERKOV Un voto di opposizione Signor Direttore, io sono uno di quelli che il 28 aprile hanno votato comunista. E non sono tesserato, ma trovo oggi, come ho trovato ieri, che in un paese cosi sfasciato una forte oppo¬ sizione di sinistra è una necessità fisiologica. Dico opposizione, nien¬ te quindi responsabilità di gover¬ no. Ora viene il Togliatti e dice che al governo ha diritto di starci anche lui; anzi, la presenza dei comunisti al governo è la condizio¬ ne di una politica di sinistra seria. Io ho paura che non sia una para¬ ta di scherma, ma stia sul piano di quelle grandi alzate d’ingegno che ogni tanto servono a guastare il no¬ stro paese, come l’art. 7. Si ren¬ dono conto i comunisti che andia¬ mo incontro ad anni duri, quando le necessità aumentano e i soldi di¬ minuiscono? Lo Stato avrà qualche anno di bilanci quasi disperati, ed i comu¬ nisti credono anch’essi sul serio di empire le casse dello Stato con le ri¬ forme di struttura? Vadano al go¬ verno e pagheranno le spese di una amministrazione che va a pezzi e dell’inflazione che basterebbe la loro presenza a far diventare ga¬ loppante. Se Moro fosse Togliatti dovrebbe aprirgli la porta e poi fargli pagare il conto, che avreb¬ be trovato la vera maniera di fre¬ gare i comunisti. GOFFREDO PAUTASSO Nazionalizzazioni e privilegi Egregio Direttore, il prof. Ernesto Rossi ne L’antro- labio n. 3 del 25 aprile lamenta che la statizzazione dell’industria elettrica possa risolversi < in un pessimo affare per lo Stato, anche per il fatto che i governanti at¬ tuali mirino con essa a fare riem¬ pire dalle società espropriate le casse dei partiti e a mettere alla Direzione dell’Enel uomini di par¬ tito, anziché uomini tecnicamente capaci >. Quando il prof. Rossi scriveva sul Mondo quegli ottimi articoli sulle imprese private elettriche, sulle lo¬ ro ingordigie e sul loro potere, per dimostrare la necessità della loro statizzazione, non aveva pre; visto che la statizzazione di tali imprese potesse risolversi « in un pessimo affare per lo Stato » ? Sta bene ed è vero quanto scri¬ ve il prof. Rossi, pensavo io leg¬ gendo quegli articoli, ma non pre¬ vede egli che il partito dominan-; te, animato da pari ingordigia di potere politico ed economico, mi¬ ri, con la statizzazione, a creare dei feudi di potere per sé e a collo¬ care nelle imprese statizzate delle persone favorite dal partito? I comunisti ridono delle nostre statizzazioni, ed hanno ragione, perchè da noi la statizzazione del¬ le imprese private serve soltanto a realizzare il principio: levati di li perchè ci voglio star io. E per¬ chè manca nei dirigenti politici l’onestà nel governo della cosa pub¬ blica e quella severità di leggi, per la quale il dirigente dell’impresa statale è costretto ad agire bene (vedi le fucilazioni di dirigenti di aziende statali in Russia). PROF. MARIO FORMENTINI Gli amici di Franco Caro Direttore, si sentiva proprio, nel nostro va¬ riopinto Paese, la mancanza di un giornale portavoce della Falange. I giornali neofascisti, da sempre, guardano alla Spagna col cuore gonfio di commozione: ma il fe¬ nomeno era riservato a una parti¬ colare fauna politica. Adesso in¬ vece un rotocalco dalla vita av¬ venturosa ha portato il proprio cuo¬ re al monte pegni di Madrid. E’ un rotocalco « indipendente », come ve ne sono tanti: Rotasti. Ed ecco dunque una bella intervista con un ceffo della falange e del regime (pardon: con un onorevole mini¬ stro della quasi alleata Spagna) in cui si dimostra che non v’è regi¬ me più democratico di quello di Franco e che l’assassinio di Gri- mau è cosa legittima, normale, che non merita attenzione. Piuttosto sconfortante, come episodio edito¬ riale e di costume. CLAUDIO FORTI 4 T’astrolabio Un Papa del nostro tempo I L nriiiio miracolo questo Papa lo lia fatto oblriiganclo noi unticlericali prima al rispetto, poi all’ammirazione. Affettuoso rispetto per quel caldo spirito di charitas ecumenica cliVra al fondo del suo animo; commosso compianto jier la sua morte. Il nostro im¬ pegno aiiticifcicale rimane. Deriva dal modo di formarsi della nazione italiana, dal peto che sul suo sviluppo e sulla sua vita politica e civile ha esercitato ed esercita quel com- idesso di interessi e pretese temporali che forma da noi il più massiccio potere di deci¬ sione Ma se non amiamo nessuna forma d’idolatria c di superstizione, così diffuse in o-rni a^jjrrepato sociale, in ogni angolo della terra, è invece dovuto e sentito il nostro rispetto per il sentimento religioso quando ha sincerità ed intensità di adesione. E non saremmo obiettivi se non riconoscessimo a Giovanni XXIIl il mento di aver alleggerito quel peso, svincolando almeno il Papato dalle angustie della politica italiana, e conrentcndo quindi un maggior gioco alle fori-c in campo e maggiori possibilità di equi- liltrio. Ad un cardinale che gli aveva inflitto una lunga intemerata sul pericolo delle inac- c-ltahili collusioni con i «marxisti» rispose soltanto, «sono tutti figli di Dio». Krusce.v stesso, alla fine, era un figlio di Dio. E non si trattava d’indulgenza lassista per i marxisti; il suo atteggiamento mirava più lontano che ad una semplice maggior tolleranza per i cri¬ stiani rimasti sotto il giogo comunista. -in Erano ora più che obliterate le scomuniche e gli anatemi, e su questa strada il Papa conduceva deliberatamente la Chiesa ad un punto di svolta di alto interesse storico sulla linea, dall’apparenza immutabile, che dalla Controriforma conduceva attraverso il Syllabo alla infallibilità del Pontefice, proseguiva sino alla chiusa teocrazia di Papa Pacelli ed al¬ l’autocrazia della Curia Romana. La forzi morale della sua personalità, così come la larga esperienza di mondo, sono naturalmente alla base della sua opera. Non è tuttavia la bontà, la pietà, la tolleranza che nc si>iegano la grandezza e giustificano il profondo compianto ma il suo disegno, che ha la semplicità logica, l’arditozza e lo slancio del e grar.di costruzioni. Lna Chiesa che pareva sempre più rattrappirsi, come una pelle di zigrino, incapace di rinuovars’ e di adeguarsi ni problemi più elementari della vita moderna, egli si sforzò di ripoilaria alla maggior espressione di cattolicità e nella rappresentanza cardinalizia e col salvataggio delle minoranze cattoliche rimaste nei paesi comunisti, ed infine — meta più ardila con il riavvicinamento alle chiese scismatiche di Oriente ed alle confessioni prote¬ stanti di Occidente. r. Concilio, pur mantenendo intatta la struttura dogmatica e ritualistica della tradi¬ zione, doveva servire ail eliminare o ridurre gli ostacoli a queste convergenze « aggiornan¬ do » _ come egli prudentemente disse — aia l’insegnamento sia la struttura della Chiesa, re¬ stituendo ai V’escovi di fronte alla Curia l'autorità della autonoma responsabilità pastorale. Alle soglie di questa contrastatissima riforma il Concilio si è interrotto; ed è grave l’interro- aalivo che pende sulla sua ripresa. Il Concilio s’inserisce tra le due maggiori c ben note encicliche di Papa Giovanni: Ma- Ur et Magisira, Pacem in terris. Questa dà il quadro generale della società cristiana, quella 'iiiticipa l’aggiornato e sistematico modello dcliò sua socialità. La Chiesa ha fatto con esse lo sforzo più completo e impegnato di comprensione e di adeguamento ai problemi nuovi e ‘'aiigianti ilei mondo moderno. Essa ignora seuipr? la classe e la sua dialettica; ed i limiti alia sua avanzata sono noti e forse non valicabili. Ma l’esigenza della giustizia ha una rap- (ire.wniazione che non potrebbe essere più integrale di fronte al diritto dell’iiomo e delle genti. Ed il richiamo alla pace, costante in oiini suo appello, trova qui la sua espressione piu alta ed ansiosa. E’ il Vangelo non il dogma che ad un Pontefice semplice e sincero sug¬ gerisce le parole veritiere che in questo niond ^ inquieto e turbato dairinciiho della distru- zioue atomica arrivano al cuore di ogni uomo. F.P. 5 I problemi del nuovo Pontificato di ANTOJSIO JERKOV ^RA LA morte di Pio XII e quella di Giovanni XXIII sono passati meno di cinque anni. I ricordi dei due pontificati sono troppo freschi e ciò ci dispensa dal dover fare un esame appro¬ fondito sulle loro differenze. Una cosa va tut¬ tavia subito notata e sottolineata. Comparando la politica dei due ultimi Papi, noi ci possiamo rendere conto quanto è importante, o meglio, sino a che punto è determinante, la personalità del Pontefice per tutta la politica della Chiesa, durante il suo regno. Pensando agli atti di Gio¬ vanni XXIII e all’impronta personale che egli ha dato alla politica mondiale della Chiesa ne¬ gli ultimi cinque anni, ci si accorge sino a che punto bisogna attribuire le precedenti posizioni del Cattolicesimo ufficiale, alle posizioni e alle inclinazioni personali di Pio XII. Il giudizio sull’opera di Papa Roncalli getta una particolare luce sulla politica di Eugenio Pacelli e sotto molti aspetti rende meno respon¬ sabile l’attività dei collaboratori di quest’ulti¬ mo. Al Papa spetta non soltanto la scelta dei collaboratori, ma anche la direzione totale del loro operato. Lo abbiamo visto proprio durante la prima fase del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, quando Giovanni XXIII interveniva d’autorità per imporre alla suprema assise della Chiesa l’indirizzo e le finalità che egli riteneva necessari e opportuni. Quando nel 1958 Angelo Roncalli fu eletto a succedere a Pio XII, molti, quasi tutti gli os¬ servatori delle cose vaticane, attribuirono al nuovo pontificato un carattere transitorio. Sono troppi i fatti ormai che chiaramente indicano come Giovanni XXIII non volle essere un «papa di transizione» e desiderò orientare tutta la Chiesa verso una politica di rinnovamento. Ma Giovanni XXIII ha regnato troppo poco tempo, per poter imprimere la sua impronta determi¬ nante ad un epoca che va al di là della durata del suo Pontificato. Cinque anni sono un periodo molto breve della storia, possono essere dimen¬ ticati troppo presto, ma possono anche diven¬ tare l’inizio di un’epoca molto più lunga. Per questo motivo, a nostro avviso, dipenderà prin¬ cipalmente dall’indirizzo che sarà scelto dal suo successore quali tracce la politica di Giovanni XXllI lascerà nella storia della Chiesa. Se il nuovo Papa seguirà le orme di papa Roncalli, allora Giovanni XXIII rimarrà nella storia della Chiesa come iniziatore della sua più grande ri¬ forma nei tempi moderni. Se invece il nuovo Papa dovesse scegliere un’altra strada, e tor¬ nare alla tradizione e al conservatorismo po¬ litico, sociale e religioso, della politica di Gio¬ vanni XXIII rimarrà soltanto un certo ricordo, che man mano potrebbe sbiadire. Nel breve periodo di cinque anni il Papa de¬ funto ha fatto tutto quello che era nel suo po¬ tere umano, e che si poteva fare, in un ambiente particolarmente difficile come lo è la Chiesa Cattolica. Dipenderà dal suo successore se l’a^' berello piantato da Angelo Maria Roncalli con¬ tinuerà a mettere radici, o sarà invece estirpato dai venti del conservatorismo, che Giovanni XXIII ha saputo dominare, ma che non ha po¬ tuto eliminare del tutto, nemmeno tra i suoi più vicini collaboratori. Basterebbe ricordare che l’art. 229 del Codice di Diritto Canonico prevede che nel caso della morte del Papa, il Concilio Ecumenico in corso viene automaticamente sospeso, e ripreso sol¬ tanto se e quando lo vorrà il nuovo Pontefice. Anche se in questo momento nessuno pone in dubbio che il Concilio continuerà, seppure in una data forse più lontana da quella prevista, non si deve dimenticare che durante la prima sessione non fu concluso nulla e che tutto di¬ penderà dall’impronta che il nuovo Papa vorrà dare alla seconda fase dei lavori conciliari. Qui, a nostro parere, sta il punto principale da cui uscirà non soltanto la caratterizzazione del nuo¬ vo Pontificato ma anche il giudizio storico sul Papato di Giovanni XXIII. (Lo spazio non ci permette di analizzare, almeno in questo ar¬ ticolo, le vicende della prima sessione del Con¬ cilio e specialmente la composizione delle sue commissioni ed il suo regolamento. Basterebbe applicare con un certo rigore lo stesso regola¬ mento conciliare emanato dal Papa defunto, per bloccare qualsiasi iniziativa riformista in sede di Concilio. Non a caso Giovanni XXIII, durante la prima sessione del Concilio, inter¬ veniva di persona, anche per annullare le vo¬ tazioni, che falsificavano la volontà della mag¬ gioranza dei vescovi, ma che erano perfetta¬ mente in regola con le disposizioni formali da lui stesso precedentemente emanate). Un’altra opera di grande importanza che Gio¬ vanni XXIII aveva iniziato ma che non potè ultimare, riguarda il nuovo rapporto tra la Chie¬ sa Cattolica e le altre comunità religiose. Lo stesso vale per quel delicato lavoro diplomatico che fu iniziato circa un anno fa, tra il Vaticano ed i paesi comunisti dell’Europa Orientale, per giungere ad una ragionevole normalizzazione dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato. Questa ope¬ ra impegnava la diplomazia vaticana ad una re¬ visione quasi completa per quanto riguarda la valutazione storica della esistenza degli stati so¬ cialisti ed implicava un profondo riesame della 6 «politica estera» del Vaticano, l’abbandono del niassiccio schieramento della Chiesa a fianco della politica militare ed economica americana e tedesca, e l’accostamento della diplomazia ec¬ clesiastica ad una politica che lo stesso Gio¬ vanni XXIII definiva di «perfetta neutralità so¬ prannazionale » e che una successiva e molto re¬ cente nota deir« Osservatore Romano » definiva una « neutralità attiva » (« Osservatore Roma¬ no» 15 marzo 1963). Non dimentichiamo che fu Giovanni XXIII a invocare drammaticamente la pace, nell’autunno scorso, quando il primo Presidente cattolico degli Stati Uniti sembrò de¬ ciso ad affrontare i rischi di una guerra mon¬ diale, per la presenza degli armamenti sovietici a Cuba. Fu proprio in seguito a questo gesto del Papa defunto, che i rapporti tra il Vaticano e i governi dei paesi comunisti presero una piega del tutto nuova, che portò alla visita di Adjubej in Vaticano, alla liberazione del Primate catto¬ lico dell’Ucraina, monsignor Slipjy, alla Pro¬ spettiva di un « modus vivendi » e di una ripresa delle relazioni diplomatiche o consolari tra il Vaticano ed alcuni paesi della Europa Orientale. La morte di Giovanni XXIII ha bloccato di colpo tutto questo lavoro, che era ispirato da una^ vi¬ sione politica anche di effetti non immediati. I nuovi rapporti con le comunità religiose non cattoliche e con i paesi comunisti, sono due ro¬ taie di uno stesso binario, che evidentemente nella mente di Giovanni XXIII aveva un suo concreto punto di arrivo. Basterebbe ricordare un recente discorso « quaresimale » pronunciato dal cardinale Ottaviani air« Angelicum » di Ro- naa, per renderci conto che non tutti in Vaticano condividevano la strada « politica » imboccata dal Papa Roncalli. Ora questa strada è stata in¬ terrotta e anche qui tutto o quasi dipenderà dal nuovo Papa. Molte altre cose si potrebbero citare. Baste¬ rebbe menzionare le encicliche «Mater et Ma- gistra » e « Pacem in terris », le quali, pur senza contenere alcuna revisione della dottrina ecclesiastica, hanno tuttavia offerto ai cattolici un linguaggio nuovo per le cose del mondo, superando tutti i precedenti documenti papali- Lo stesso vale per quel continuo dialogo, senza posa, amichevole, più fraterno che paterno, che Giovanni XXIII ha sempre cercato di stabilire con gli umili, con i poveri, andando a trovarli egli stesso, nelle borgate e nelle chiesette di Roma. Confrontando i due ultimi pontificati, di Pio XII e di Giovanni XXIII, noi vediamo come un papato è caratterizzato soprattutto dal me¬ todo personale del Papa, dal suo modo di pro¬ cedere, ed anche di comunicare con gli altri. Ricordiamo le scomuniche di Pio XII e una lunga continua benedizione di Giovanni XXIII, rivolta a tutti, senza eccezione, una benedi¬ zione che è durata quanto il suo pontificato. Anche in agonia, Giovanni XXIII benediceva Il nuovo Papa sarà l’uomo H»!’» «'’^muniche o delle benedizioni? Si è scritto e si è parlato molto in questi ultimi tempi - delle «riforme» di Giovanni XXIII. A noi pare più esatto dire che Papa Giovanni aveva mutato più che altro il metodo di contatto con la gente e con le cose e che voleva imprimere questo suo modo personale di agire anche ai rapporti tra la Chiesa e il mondo. Abbiamo indicato soltanto alcuni punti del pontificato roncalliano, non per fare un esame della politica di Papa Giovanni, ma per indi¬ care alcuni problemi che egli lascia aperti e che dovranno essere affrontati, in un modo o nel¬ l’altro, dal suo successore. Ma bastano queste poche questioni, tra tante altre (e nessuna di queste che abbiamo menzionato era di natura teologica, e perciò non implicava alcuna riforma della dottrina della Chiesa) per definire il breve pontificato di Giovanni XXIII un papato rifor¬ mista. A chi si domanda, dove sono allora que¬ ste riforme, si può rispondere che lo spirito nuovo, riformistico, appare dall’insieme di tutti, 0 quasi, gli atti, piccoli e grandi di Angelo Roncalli. Sono come piccoli punti, che messi insieme in un £erto modo, creano una precisa immagine- Nella percezione totale degli atti di Giovanni XXIII noi vediamo qualche cosa che non c’è nei singoli elementi, e questo qual¬ che cosa è appunto la forma di un pontificato che necessariamente rivela anche il suo conte¬ nuto più profondo, cioè la sua sostanza. E’ il caso di parlare di «qualità di forma» (Gestalt- qualitaeten). Giovanni XXIII non ha creato nessuno dei problemi che cercava di affrontare. Li ha tro¬ vati tutti quanti, ammucchiati attraverso i se¬ coli, nella Curia Romana, nella Chiesa, nel mon¬ do ed ha cercato di comprenderli. Ha voluto poi, per quanto era nelle sue possibilità, togliere almeno una parte della ragnatela e delle incro¬ stazioni. Alcuni mesi fa, il religioso svizzero, p. Emile Legault, ha riferito che mentre erano in corso i lavori della prima sessione del Con¬ cilio, un amico di Giovanni XXIII aveva chie¬ sto al Papa che cosa si aspettasse da tale evento. Per tutta risposta il Papa aprì la finestra della sua stanza e rispose: «Far entrare l’aria pura nella Chiesa ». Passando in questi giorni in Piazza San Pie¬ tro, si poteva vedere questa finestra che il Papa aveva aperto, alcuni mesi fa. Era chiusa, con le serrande abbassate, perché dietro di essa moriva Angelo Roncalli. Questa finestra rima¬ ne il simbolo di quello che Giovanni XXIII ha ♦ voluto e che invece non è riuscito a fare. Toc¬ cherà ora al suo successore lasciarla chiusa o riaprirla, quella finestra, per « far entrare l’aria pura nella Chiesa». Questo, in fondo, è il vero problema del nuovo Pontificato, che sì sta affacciando sulle soglie della Chiesa, e per certi aspetti anche sulle soglie del mondo. ANTONIO JERKOV 1 I timori di Carli di FERRUCCIO FARRI JL GOVERNATORE Carli ha concluso la sua espo¬ sizione finanziaria all’Assemblea della Banca d’Italia con un quos ego di una nettezza e fermezza che non consentono evasioni ed equivoci. Soprattutto per la politica economica che ora si dovrà seguire, prima e diretta controparte, anche se il discorso investiva più largamente tutto il sistema economico del paese e le sue deficienze. L’invito a tirare i remi in barca era la conclusione rigorosa di una rigorosa analisi della vicenda monetaria c finanziaria del 1962, di un’azione e sobrietà am¬ mirevoli. Non tutti gli elementi di quella sorta di processo che Tanalisi comporta sono forse apparsi in luce, ed è mancato più ancora un giudizio complessi¬ vo sulla congiuntura del boom, necessario ad una valutazione oggettiva delle forze operanti. Ma sarebbe ingiusto un commento che non sottoli¬ neasse la sincerità senza attenuazioni di una analisi anche se autocritica, il preciso coraggio di molte in¬ dicazioni, la estrema discrezione nei riguardi dei poteri pubblici e del loro operato, una lezione di modestia, congiunta ad una vigile coscienza della propria respon¬ sabilità. L’apertura della crisi ba forse liberato il dott. Carli da qualche preoccupazione di creare imbarazzi a chi governa e gli ha dato maggior libertà di parola. Anzi ha accresciuto il suo dovere di parlar chiaro in vista della nuova situazione politica. Le strettezze ora incombenti e le tentazioni e pressioni che esse stesse accresceranno lo hanno perciò condotto a riaffermare la indipendenza dal potere politico della banca centrale. Ciò che è giusto, anzi ovvio, in termini generali; la Banca d’Italia non è la banca del governo; ha una funzione e responsabilità istituzionale, di garante della sanità monetaria, che esìge una adeguata autonomia di azione. Ma Tappiauso, anzi l’ovazione, che ha salutato la chiusa ne ha colto piuttosto il valore polemico. Non era tanto Tappiauso degli esperti convinti della giu¬ stezza delle conclusioni ricavate dalla lezione del 1962, quanto lo sfogo di un lungo malanimo contro il centro-sinistra che ha un sottofondo prima che tecnico politico e di classe. La Banca d’Italia non è la banca di certi gruppi sociali. Auguriamo sappia guardarsi da certi abbracci. Definire grave la situazione ora creatasi sarebbe fare dell’allarmismo ingiustificato. E’ seria, e come tale è bene che i politici la considerino. Il fabbisogno di capitale richiesto dallo sviluppo dell’economia è ingente, più che in passato. Ad oltre 2000 miliardi il dott. Carli calcola al netto la domanda per il 1963 richiesta dai programmi d’investimento, pubblici e privati: TENEL solo per le nuove costru¬ zioni ha bisogno di forse 400 miliardi; notevole è la tronche imputabile al 1963 per i programmi delTENI. Saranno da aggiungere le occorrenze ancor ignote ma assai probabili della Tesoreria dello Stato. La massima parte di questa massa di miliardi, più di tre quarti, dovrebbe esser fornita da emissioni obbligazionarie. Nel 1962, su un totale di emissioni mobiliari per 1642 miliardi solo 857 sono stati forniti dal pubblico. Poiché ridurre i programmi avrebbe significato ridurre il ritmo dell’attività economica, l’istituto di emissione si è visto obbligato a mettere a disposizione del siste- rna bancario, per assorbire la parte non coperta, dispo¬ nibilità aggiuntive, che alla fine del ciclo si sono tra¬ sformate in disponibilità monetarie del pubblico, di senso inflazionista. I rilevanti aumenti dei salari e stipendi hanno ri¬ dotto le possibilità di antofinanziamento, e quindi ac¬ cresciuto la domanda di capitale, in contrattempo con il semi-congelamento del suo mercato classico. Gli aumenti dei costi salariali non assorbiti da incrementi di produttività o da riduzioni di profitti — la mag¬ gior parte — ed i conseguenti aumenti dei prezzi hanno elevato il livello della richiesta di credito. Don¬ de tensioni creditizie superate con immissioni di li¬ quidità. In complesso una situazione sempre più pesantemente artificiosa, riassunta dalla caduta nel 1962 del saggio d’incremento del capitale al disotto del saggio di aumento del reddito nazionale, in con¬ trasto con il 1961. Cioè un arresto nel flusso del ri¬ sparmio privato, che è ancora l’alimento essenziale del circolo economico. Nel frattempo sono maturati altri fattori negativi. La svalutazione in termini di potere d’acquisto interno della moneta favorisce le imp>ortazioni, sfavorisce le esportazioni, rese più diffìcili dal mutare della situa¬ zione generale anche in seno al MEC, ed anche, forse, da ritardi e mancati rinnovi di qualche settore del nostro apparato produttivo. Ai riflessi di questo mutar di correnti sulla bilancia internazionale si è aggiunta la circostanza che una frazione sensibile della liquidità indotta è venuta da fonti esterne. La nuova partita passiva ha contribuito a squilibrare sensibilmente la bilancia dei pagamenti. Le riserve valutarie restano notevoli e sufficienti; ma è già necessaria una posi¬ zione di difesa. E’ insieme peggiorata la situazione della Teso¬ reria, come riflesso dei pesanti impegni via via assunti dal bilancio dello Stato, creando una nuova corrente di drenaggio a carico della Banca d’Italia e della circo¬ lazione; ed un futuro potenziale di drenaggio fin quando non si raggiunga una nuova fase di assestamento. Ed ecco la morale di Carli. La situazione di emer¬ genza del 1962 non è ripetibile; il mercato monetario ed il credito bancario ch’esso può stimolare non possono surrogare il mercato normale del capitale se 8 non transitoriamente, sotto pena di grave pericolo per la moneta; se il risparmio non si muove la liqui¬ dità indotta non può surrogarlo. Perciò, nella situazione mutata e delicata de* 1963 la Banca d’Italia non potrà, non dovrà soddi¬ sfare domande, pubbliche e private, d’investimenti ehe eccedano le disponibilità di risparmio con immis¬ sioni artificiose di liquidità. E voi Governo, voi Par¬ lamento provvedete in conseguenza ad un riesame critico dei mezzi che Stato, enti locali, enti pubblici, IRI, ENEL ed ENI si propongono di chiedere al ■ttercato; coordinate questo fabbisogno con quello delle imprese private; differite le spese meno urgenti secondo un programma ordinato secondo scelte prioritarie. Discorso dunque di quaresima, che ha sembra —■ due causali principali; la delusione per la persistente ed ancor perdurante atonia del mercato finanziwio, la preoccupazione per la bilancia internazionale. "Tra le ipotesi dell’avvenire Carli non esclude la possibilità di doversi rivolgere per sostegno della moneta al Fondo monetario internazionale. E’ la fine, per ora, del mo¬ mento aureo della lira come « moneta forte *. Condizione di cose, tuttavia, non ancora grave. Situazione controllata e controllabile, dice il Gover¬ natore. Le previsioni congiunturali, quanto al merca¬ to interno ed al livello della domanda, restano buone. entrate tributarie di bilancio non accusano flessio¬ ni. L’aumento dei prezzi tende a ricostituire margini di autofinanziamento. Sulla base di una certa^ stabilità, attenuata la fuga verso gli investimenti eduiu c ridotti sii imboscamenti all’estero, il mercato finanziario potrà tisvegliarsi. E’ inutile peraltro illudersi: la nuova sta- l^ilità il risparmiatore anonimo l’attende dall onore- ''ole Moro. E qui è il discorso nostro che deve farsi preciso ®d obiettivo. Deve in primo luogo riconoscere che le ®*igenze di fondo prospettate da questo rappono de¬ vono essere soddisfatte, e la barriera posta dal C^ver- natore deve essere rispettata. Le limitazioni "I 5 possibilità di azione del governo che ne posano deri¬ vare sono di duplice ordine. Riguardano in primo l^go *1 bilancio dello Stato, che presenta sin d ora difficili problemi di quadratura e copertura — statali, scuola, ®Pcse militari — e la Tesoreria in relazione ai disa¬ vanzi da coprire. Sarebbe sgradevole dover ricorrere ® nuove imposte. In secondo luogo — e non è gra¬ devole per un governo di spesa come quello di centro- ministra — saranno da rivedere i piani di investimen- ^0 a carico del bilancio dello Stato e dei bilanci delle 82iende statali e delle imprese parastatali. Una delle Condizioni perchè la nuova garanzia al risparmiatore funzioni è data dal posto adeguato da lasciare aU’im- Ptesa privata: e già l’on. Tremelloni solleva a questo riguardo le sue riserve sui piani del Ministro Bo per fc Partecipazioni. Ma è chiaro che una politica economica razionale non solo non contraddice ma esige un piarlo globale, fogico ed organico di spese di realizzazioni graduate nelle priorità, quantità e nel tempo secondo obiettivi fissati dal potere politico. Il rapporto Carli colpisce l’affastellamento dei piani di settore, deficienza dei governi centristi, ed anche del centro-sinistra passato, nia non il principio della programmazione integrale come cardine di una nuova politica economica, solo chiedendo il proporzionamento dei piani alle disponi¬ bilità effettive di risparmio. . . ... A questa stessa direttiva si riconduce una politica più impegnata di controllo dei prezzi-base del costo della vita, come anche della trasformazione industriale, e più impegnata quindi nella cosiddetta « commercializ¬ zazione » dei prodotti agricoli, e nel J^rtar rimedio al disordine urbanistico, ben colpito dalla diagnosi del Carli. Il quale pone tra i problemi più urgenti di oggi la lotta contro « le forze che cospirano all’aumento dei prezzi », e quindi la difesa del salario reale ( bilancio alimentare, affitti) condotta sin'ora senza la efficacia e tempestività necessarie. Restano peraltro, anche nel ragionamento Carli, alcune zone d’ombra ch’è bene cercar di chiarire per intendere quale funzione può spettare a forze di sini- stra nel governo di domani. Alcuni dubbi e riserve possono servire a rettifica¬ re il giudizio complessivo sulla congiuntura dal quale scaturisce il suggerimento finale. Vi ^ è ona cwta corresponsabilità dell’autorità monetaria con il Go¬ verno nell’aver tollerato e mantenuto sacche di li¬ quidità oziosa e speculativa e piu ancora di aver troppo alimentato l’impiego nell’edilizia residenziale. Nel processo all’inflazione deve trovar posto la ribellioiie insormontabile dei capitalisti contro le imposte, la fuga dei capitali, gli imprenditori negligenti. Se 1 on¬ data delle rivendicazioni salariali interviene al terzo atto del boom ad esigere la parte cui ha diritto, «sa s’inserisce in un movimento al rialzo dei prezzi già in pieno sviluppo: se questo avesse potuto esser cont^u- to, è da climostrare quale incidenza quella avrebbe avuto. In realtà è il cosidetto boom nel suo cido complessivo che dev’essere messo sotto accusa, feso ha operato in un sistema economico che dispone di una buona organizzazione creditizia, ma non è coordinato, nel quale quindi non è solo la dinamica salariale ad agire come variabile autonoma. Quando la spinta eco¬ nomica generale interna si è venuta attenuando, si è conclusa anche la fase propulsiva del MEC ed è subentrata a danno dei produttori imprevidenti la fase concorrenziale. Supporre che l’emergere di una situazione inflazionista possa arrestare l’avanzata sa¬ lariale che la spinta generale ha generato è assurdo. Anche il boom ha una sua logica unitaria, che è inva¬ riabilmente inflazionista in ogni società in equilibrio instabile. Esso scompagina il sistema c fa saltare i prezzi, cosi come in fisica la somma di vibrazioni di origine diversa fa crollare la costruzione. Forse si potrebbe dire che una concezione non produttivistica avrebbe consigliato di frenare il boom, o, se fosse stato possibile, di equilibrarne il decorso. Comunque un osservatore sereno potrà ritenere che siano le conseguenze difficilmente dominabili del boom ad aver fatto saltare anche governo Fanfani. Ponendo un blocco, forse ritardato, di tipo cinaudiano a questa fase congiunturale che cosa sug¬ gerisce per l’avvenire il dott. Carli? Una « politica dei redditi ». Formula vaga oltre la quale egli nella sua competenza non ritiene di poter andare, che implica peraltro una regolazione consensuale tra le forze anta¬ goniste del profitto e del salario, ed un potere che tragga la forza coordinatrice dalla tutela delle propor- t 2 Ìoni fisiologiche vitali tra reddito, risparmio e inve¬ stimenti. E quindi, sempre, un piano a breve e lungo termine. Ma l’on. Moro ammette una regolazione consen¬ suale che come contropartita della disciplina invocata inserisca i sindacati — e quindi quelli della CGIL — in negoziati nazionali che ripartiscano il reddito senza rompere l’equilibrio? Il problema del * sindacato nella programma¬ zione » è uno dei più gravi, e decisivi, delle società occidentali ad elevato sviluppo industriale. Ne ha trattato un recentissimo ed interessante convegno romano della CISL, che da tempo se ne preoccupa, suggerendo forme di « risparmio contrattuale » che dovrebbero evitare o limitare l’effetto disordinatore di ingenti ondate di nuovo potere d’acquisto rovesciate bruscamente sul mercato. Il problema della casa do¬ vrebbe, forse, esser tenuto particolarmente presente. E’ materia comunque degna di attento studio. La CGIL avrebbe torto se non lo considerasse tale, cioè come im problema oggettivo e centrale dello sviluppo eco¬ nomico attuale, mentre ha ragione di protestare contro tentativi di esclusione, non realizzabili e alla lung® dannosi. E’ vero che una effettiva inserzione del sin dacato in una politica di piano può esser raggiun solo ove si realizzi l’unità sindacale, unica esp''* sione da noi possibile dell’unità della classe lavora trice, non sinceramente possibile sin quando i w. non si sottraggano alla strumentalità di partito. 1" senza la presenza dei sindacati manca una condiz'on di programmazione democratica e manca la jwssibili della armonizzata politica dei redditi preconizzata Governatore della Banca d’Italia. .. E torniamo così ancora al contenuto di una pò**' tica di centro-sinistra che ha in questa capacità acrao- cratica di programma la sua sostanza e la sua caratte¬ ristica. Se è una garanzia di serietà, concretezza e reaj lismo che l’operatore economico attende, questa . centro-sinistra la può dare. Se è una garanzia soltant di tranquillità, quella cioè che la Borsa attende, t discorso è diverso. FERRUCCIO PARR» Le alternative del PSI di UMBERTO SEGRE 1?ARAMENTE il dibattito interno alla direzione socialista è stato, come questa volta, lo specchio della consapevolezza politica di un partito, e diciamo pure dello ” stato di necessità ” in cui esso si trova. La decisione molto severa che esso deve prendere — se, e in quali limiti, dare un immediato appoggio di astensione al nuovo governo; in vista di una par¬ tecipazione piena, eventualmente, al di là del con¬ gresso; o se ricusare sin d’ora un’adesione che sem¬ bra promettere frutti particolarmente magri — di¬ pende infatti, in parte, da ciò che il partito è, nella complessità di fattori, che vanno da un indubbio ristagno elettorale, al contrasto di posizioni, che a nostro avviso è a volte originato da una serie di intrepide ” fughe in avanti ”, non sempre garantite da un volenteroso e robusto esame autocritico. Ma, la difficoltà della decisione dipende anche da una condizione generale del Paese; da una fase di transizione che esso attraversa, e da congiunture, cui il capitalismo italiano crede di poter oggi offrire taluni dei suoi più qualificati rimedi, mentr.> il socia¬ lismo è ancora, da noi, ad un esordio anche troppo contestato per poterne contrapporre dei propri — e ad un grado di unità e forza ancora insufficiente¬ mente risoluto, per accettare a cuor leggero quelli avversari sapendo che potrebbe, dal canto suo, as¬ similarli e appropriarsene. Di tutto questo intrico di problemi e tendenze, di giudizi e timori, l’ultima riunione di direzione ci sembra essere stata un testimone raramente chiaro. Il fatto che i poteri dati a Nenni, per i contatti con i democristiani, siano solo apparentemente quell) della « carta bianca *, ma di fatto vengano circondati da obbiezioni e cautele, è la riprova esteriore, in sede di formula pratica, della condizione ardua in cui *' svolge oggi in Italia l’esperienza di un partito socialista. Proviamo a riassumere banalmente, anzitutto, 1^ alternative che stringono da ogni parte la dirigenza del partito. a) La più ampia, e di ordine generale, è: g®" verno o opposizione. Non si oppone, è ovvio, alcuno scrupolo massimalistico alla partecipazione ad un verno che opera in una società a ordinamenti bor¬ ghesi, insieme con partiti borghesi. Tale riserva c del tutto caduta in Europa nel periodo fra le due guerre, e la disponibilità comunista dopo il ’45 * solo una convalida di questa autonomia di movi¬ mento. Ma la ragione concreta di essa sta però in giudizio storico, e cioè che il grado di sviluppo obbiettivo del sistema capitalistico consente oggi l’iO' serimento al governo dei partiti socialisti in una fun¬ zione di spinta, di rottura, di trasformazione delle strutture. Alla morale della non partecipazione, che si fondava sulla norma puritana della lotta contro o compromesso, si rinunzia nel punto, in cui un’altra tesi morale si impone: quella della piena iniziativa del partito socialista, al centro di una situazione m sviluppo. Questo stesso giudizio politico ha come correlato l’altra alternativa: di collocarsi all’opposizione, e di restarvi, e non più in posizione di protesta e di assalto, ma come pressione che si appropria dell’intera lati- tudine A azione consentita dalla legalità borghese. Ip questo caso, partecipazione al governo o pres¬ sione dall’opposizione hanno il medesimo Kopo, e si può anche ammettere che, ove sia poss‘hile prc vedere e progettare un’azione, anche solo minale, i trasformazione socialista dello stato — un azione so¬ prattutto che produca strumenti per ulteriori tras or ■t'azioni socialiste — la via del governo sia, ® efficienza dei mezzi che offre, preferibile “ ^“elia della opposizione. Se c’è ancora nel PSI quale e serva di principio contro questo modo di s'.può ben dire che sia largamente superata dallo sviluppo storico dell’ideologia socialista. Ma la condizione (a) intanto è vah a, quanto sia concretamente trasferita nel giudizio ^ tico contingente. Ora intorno al PSI vengc^ P* er- tatamente presentandosi, come proposte, obbiezicini, c risposte, queste alternative pratiche. Primo, o 'erta di associazione (come astensione prima, e m seguito come partecipazione alla maggioranza di go¬ verno) effettuata da Moro consente un inserimento almeno ” presocialista ”, o "verso" un esordio di strutture socialiste? Secondo; se non lo consente 't®ve egualmente essere accolta, affinché non si ■ermini un deterioramento generale dello schierati! politico italiano, per U quale la DC, ««>spmta final- "tente dai dorotei verso destra, famsca col produrre |1 proprio, più consono ” accordo legislatura , di formula centrista? Terzo: se è difficile, nel seco caso, mantenersi in una vera e propria tensione so- C‘alista, è più facUe raggiungere questo banchi dell’opposizione? O non piuttosto il Fbl na 8ià compiuto una così avanzata conversione verso la partecipazione governativa, da non potere o non sa¬ pere più ricostruire una propria funzione di opposi- ainne, non solo e non tanto nel Parlamento e nei centri di potere politico, ma negli organismi di massa? c) Se "verifichiamo” le posiziom emerse daUa direzione socialista vediamo subito che 1 alterativa ‘corica (a) non è stata messa in discussione da nes¬ suno. Ma tutte le facce dell’alternativa politica (b) hanno in direzione la loro rappresentanza; e^ mentre ngura negli interventi di Valori e Vecchietti la tesi che una ” aggiunta di socialismo ” si coglie solo dall op¬ posizione, e in quella De Martino-Pieraccini la tesi simmetricamente opposta; nelle posiziom I^mbar- °i-Giolitti-Codignola-Santi si ravvisa quella piu com¬ plessa coscienza di una ” lotta per d governo o di ytta ” lotta per l’opposizione ”, che ci sembra sia da identificare, in questo momento, come 1 aspetto piu ■ttaturo dello sviluppo del PSI. di necessità La situazione di fatto offre ai socialisti alcuni dati non modificabili, dei quali essi non possono non tenere conto. . ,. . E’ vero che Moro non può fare a meno dt loro. ■n quanto egli non è un qualunque candidato ^la presidenza, ma il candidato democristiano per la tor- tnula di centro sinistra. E’ anzi, accantonato Pantani, il leader di questa posizione; e dopo la lezione de *60, riteniamo che Moro abbia anzi irrigidito la sua li¬ nea di condotta poHtica. Ma la DC può fare « ^ socialisti perché è disposta, anzi decisa a governare ^oanì mSo, e quindi ad assumere anche alterna- tive,^in concreto meno costos^ che quelle costituite daU’associazione con U PSI. Questo significa che i socialisti, con Moro, hanno un margine di "“«“iato; ma saltato Moro, quel margine "O" hanno quindi affatto un "potere limitato; anzi, notevolmente circoscritto. E l’orizzonte deUa DC, che include m se come delle sue alternative il moroteismo, è piu ampio e autore¬ te del proteismo stesso, anche Moro ^e^o non può, finché non si decida a passare ^e restringere la piattaforma di governo ad un pac chetto” di concessioni, il cui contenuto è formto ufrmitrdi'^ciasse, non è indifferente, ad e^m- pio che gli "esperti” cui Moro ricorre non siano que’Ui chf siedono alla sinistra, nf a Coi^issioM della programmazione; ma siano 1 S della stabilizzazione del "sistema — gente seiwa dubbio acutamente aggiornata e di S^^de prestigi pubblico, ma ideologicamente qualificata m un sen L quello di un ” liberismo corretto (disposto cioè ad’ assumere, come strumenti di autoconservazione, alcuni dei congegni del dirigismo), di cui non credo vogliano essi stessi celare la base Sono loro i veri, grandi dirigenti di una struttura Ki^^omico-sociale, di cui i dorotei costituiscono solo l’efflorescenza al livello della politica come combma- zione, o come tecnica della conservazione di gruppo. Le concessioni « massime » Né qui si vuole farne un a^ebito lare severità a Moro stesso: , rebbe ricorso ad altri esperti, o almeno “neh® tecnici del "nostro” versante, se già non avesse gfudkatfche l’attuale tensione della congiuntura ftaliana o si risolve entro la stabilizz^ione del si¬ stema qual è, o non si risolve affatto. 11 massimo concessione che può dunque essere fatta ron- troparte, è che essa stessa si assi^ri, partecipando all’impresa, che la congiuntura verrà davvero r^d^ zata; che non si consentirà (almeno di proposito) che i monopoli privati, l’affarismo, il sottogovern^ ne approfittino scandalosamente per mettere radici segrete, contro le quaU ogni lotta f'vendicauva di¬ venga impossibile in futuro per il In breve: Moro costituisce l’optimum dell offerta odierna di centro sinistra che possa provenire M DC ma appunto per questo, pur esistendo un certo "tratto” marginale di negoziabilità, 1 oriKonte del negoziato è quello, e non altro, /li viene riservato quasi nulla, o nulla del tutto, che operi nel senso del socialismo, in quanto riduzione Tpoure economico e politico della cl^se pro^- taria italiana; viene invece accordato di partecipare af contfollo del modo, in cui il rilancio deUa ~n- giuntura sarà tentato nei limiti del sistema (blcKW dei salari, eccetera), e per la ^.affermazione d. ^o. , Ma secondo noi, lo stato di necessità che si im pone in questo momento ai socialisti non dipende •olo dalla rÌ 8 olute 22 a, con la quale le for 2 e econo¬ miche del sistema intendono prendere in mano la causa del loro ricupero (e promettono, all’uopo, un ricupero di "interesse generale”). Dipende an¬ che dalle intrinseche condizioni della coscienza so¬ cialista in Italia. E impossibile sorvolarvi o accan¬ tonare il discorso come inopportuno. Rapporti con i comunisti L offerta democristiana non è tuttavia cosi nuda come nello schema qui definito. AU’interno di quel « ricupero », stanno alcune rettifiche alla stessa illegalità borghese, che è stata così ampiamente esercitata dalla destra economica ita¬ liana ( e sotto questo nome non sono in questo caso da indicare solo le direzioni monopolistiche, ma la rimar¬ chevole frangia di nuovo ceto medio, che da quelle ricava profitti marginali di complesso intreccio, c per canali che il tumultuoso sviluppo italiano degli ultimi anni ha imprevedibilmente aperto) negli ultimi anni: determinando nelle campagne il dramma della mezza¬ dria e la fuga del bracciantato; nelle città la corsa alla speculazione immobiliare; e così via. La DC si rende conto che la riparazione almeno parziale di queste sfasature deve pur essere offerta ai socialisti, se in qualche modo si vuole ottenerne l’appoggio alla stabi¬ lizzazione del sistema. Sta ai socialisti decidere, se essi abbiano tale forza ideologica e organizzativa da accet¬ tare di segnare il passo per un certo periodo, allo scopo di organizzare, in una più favorevole congiuntura, un rilancio di socialismo; o lasciare che, retrocedendo la DC al vecchio centrismo, si facciano più aspre le contraddizioni di questa epoca del capitalismo italiano, e 1 occasione rinasca, per loro, più aperta dalle cose stesse. L’apprezzamento però di queste due possibilità, da parte socialista, non può prescindere dalla consa¬ pevolezza che essi hanno della loro verità e attualità: ed è qui, temiamo, che possono inserirsi falsi scopi e decisioni pretestuose. Il problema della partecipazione alla maggioranza, in condizioni di maggiore o minore vantaggio per un programma socialista, è legato per il PSI alla sua rottura con il PCI; e ad una serie di giudizi politici, che formalmente « corrono », ma dietro ai quali c’è stato sinora ben poco lavoro ideologico e pratico. La coppia fondamentale di questi giudizi è: 1 ) il fronti¬ smo è una tattica, legata ad un certo momento della guerra fredda; superato quel momento, tale tattica deve essere impugnata e mutata; 2 ) nelle attuali condizioni, di attenuazione della guerra fredda, il partito socialista riprende e pratica la sua piena autonomia e si appresta a partecipare ad altre alleanze, rimanendogli indiffe¬ rente se taluno dei nuovi alleati pronunzi verso il PCI determinate ripulse, che il PSI o non condivide o non ha interesse ad esprimere. Di fatto, il PSI, dal 1956, è andato sviluppando proprio in questo senso il suo rapporto con il comu¬ niSmo. Ma ciò che vi è, secondo noi, di « non risolto *, m questo modo di vedere, è: che il PSI, giudicando il frontismo una tattica, sembra giudichi ì non esserne stato affetto, caratterizzato esso stesso, mentre lo fu. come ben ricordiamo, sino all’apologià dello stalinismo, e certo sino all’adozione della identità leninista ideo¬ logia-organizzazione. Abbandonando poi la « tattica frontista », il non ha compiuto alcuna critica effettiva di se stesso» ma solo del PCI; tant’è vero che il rovesciamento del¬ le posizioni di allora, dal punto di vista dottrinale, è consistito nel procedere verso una concezione del so¬ cialismo, per la quale le riforme si fanno dall’alto delle istituzioni borghesi, senza alcuna modifica delle loro modalità politiche, anzi, impegnandosi a serbarle in¬ tatte (con una singolare disgiunzione di struttura e soprastruttura, che non vorremmo qualificare come tipica del metodo socialdemocratico); cioè senza 1* minima invenzione di nuove forme di « legalità socia¬ lista ». E non già perchè questa ultima « cuzione » ita estranea al PSI: esso la adotta, anzi, quando serve co¬ me parametro al processo delle intenzioni comuniste; ma non affatto, invece, come proprio strumento di lot¬ ta « per il governo », quando si tratta di negoziare con la DC. La mancanza di tale autocritica è anche quella, s®' condo noi, che rende oggi così disperata, per la destra autonomistica, l’ipotesi di un rovesciamento di ten- denza, e di un passaggio all’opposizione. « Che cosa ci impedirebbe, in questo caso, di tornare a confon¬ derci nell’abbraccio comunista? e di naufragarvi? »• L angoscia di questa domanda è profondamente mo¬ tivata. Infatti, per aver considerato il frontismo come un momento epidermico della persistenza socialista in Italia, un momento che si poteva porre impregiudi¬ catamente tra parentesi, ci si ritrova ideologicamente impoveriti di tanto, quanto era invece stato adottato ( e poi^ tormentosamente lasciato decadere ) di leni¬ nismo insufflato dai comunisti da un lato, e di labori; smo accettato dalla critica azionista — non mai giunti poi a una elaborazione razionale e risolutiva. Alla fin® ci si trova insoddisfatti e timorosi di ambedue le ai- ternative. Si teme che un certo laburismo possa ptt^ gredire senza di noi al governo; che un certo leni¬ nismo torni a premere su di noi se stiamo all’opposi; zione; che un certo laborismo sia insufficiente per tioi se andiamo al governo; che un certo leninismo pro¬ gredisca senza di noi, fra le masse sempre più guidate dai comunisti, se, ritornando all’opposizione, finiamo per sottostare a loro, sarcasticamente vincitori. Decisione urgente Eppure, allo stato delle cose, il PSI non può non decidere. E se torniamo per un momento al dibattito di direzione, così contrastato e apparentemente non con¬ cluso, abbiamo l’impressione che forse per la prima volta dopo il 28 aprÙe ( ma anche dopo un gran nume¬ ro di altre direzioni e comitati centrali) la coscienza di doverne « venire fuori al netto » — e cioè con una risoluzione politica che ravvicini l’azione socialista esigenza di una propria dottrina — stia finalmente emergendo. Dicevamo che alcune intrepide soluzioni socialiste rassomigliano troppo a fughe in avanti — e quella del rovesciamento di fronte, del governo a qualsiasi costo, aveva troppo l’aspetto di una soluzione, nei 12 confronti dei comunisti, cercata nell’azione pura, nella azione che pone noi di qua e voi di là, e stabilisce ^ a sola, irreparabilmente, la contrapposizione. E tuttavia, che questa fuga in avanti avesse una sua legittimi^, si vede ora dal frutto che offre: di una revisione, anc e solo iniziale, della politica del PSI; della ricerca j una linea di condotta, che ponga certe condizioni a partecipare al governo, e certi scopi al ritornare al a opposizione. Quando la cronaca di queste giornate romane ci informava che « non ci sarà al congresso socialista una terza corrente », quella che si voleva dare corne una zelante assicurazione di unità del PSI non ci fa i^ ca o nè freddo: nè ci conforta, nè ci insospettisce. Per noi vale il fatto, che nel PSI si incominci a considerare la partecipazione al governo come una lotta con la e con il « sistema »; e che l’opposizione stessa inco- minci ad essere pensata come un’azione socialista c e non è pregiudizialmente in contrasto con quella conm nista, ma che, se vi perviene, adotta il modo già indi¬ cato dai comunisti stessi al loro congresso: fare del movimento operaio, dei lavoratori, democraticamente, i giudici dei due metodi, delle due proposte, capi a- rizzandone la discussione, attivizzando la propaganda, specificando la propria pedagogia politica. Il Poi tro¬ verebbe qui stesso la regola e la via della sua resurre¬ zione elettorale, alla base della quale sta indubbiamente una negligenza sul piano di classe, che e inuti e sottolineare. Il PSI non può non decidere, secondo noi. Non vogliamo dire: deve decidere di andare al governo. 'Vogliamo dire: deve decidere di andare al governo, se è pronto a organizzare la pressione delle masse per l’esecuzione di quanto, nella trattativa, può aver strap¬ pato alla controparte di « presocialista » (le regioni!) se non propriamente di socialista (abbiamo visto che non c’è molto forse da ottenere in questo senso), be è disposto a operare, dalla maggioranza e dal governo affinchè la ristabilizzazione della congiuntura, nel quadro del sistema dominante, non pregiudichi una nuova partenza per la « riduzione » del sistema stesso. Queste ragioni possono, anzi debbono essere dette alla controparte, cioè a Moro, con estrema lealtà. 11 PSI non deve accettare, ma non deve meritare, accu¬ se di doppiezza. Deve spiegare perchè non scioglierà anzi rafforzerà l’unità sindacale; perchè non amrnet- terà discriminazioni anticomuniste, che rnenomerebbe- ro la sua stessa lotta per distinguersi dat comunisti. Tutto questo, è la materia della decisione socialista — in un momento di avversa congiuntura economica e anche politica, in una stagione in cui non ha pro¬ dotto originali tesi socialiste benché incominci ad av¬ vertirne l’esigenza. Un partito di fiato ampio e torte, queste cose le può fare, e a noi sembra che incominci a sforzarsi per farle. Ma come la prova di centro sini¬ stra può essere la forza, oppure la fine di Moro, essa può divenirlo anche per gli attuali dirigenti esecutivi del PSI. Anche i partiti invecchiano, benché abbiano la morte molto più lenta degli individui; è prudente non lasciare che ne sorga anche solo la previsione, il sospetto. UMBERTO SEGRE Programmazione sterilizzata? di AISTOMO GIOLITTI A LL’ESATTISSIMO e stringente ragionamento svol- to da Paolo Sylos Labini su questa rivista per confutare come ” chiaramente sofistica e ideologica¬ mente viziata ” la pretesa di escludere dalla compe¬ tenza della Oimmissione nazionale per la programma¬ zione economica le questioni ” politiche , si potrebbe 3ggiungere, ad abundantiam, un’ulteriore considera¬ zione. La decisione di procedere alla programmazione economica è una scelta politica: lo è, di per sé, in modo implicito; lo è, in modo esplicito, per le mo¬ tivazioni che di tale decisione sono state date dal governo e dal Parlamento. Non si è trattato di una scelta a favore di una tecnica di amministrazione pubblica, bensì di una scelta per il raggiungimento di certi fini di politica economica e sociale e per la predisposizione e l’impiego di strumenti ad essi ade¬ guati. E’ stata, quindi, una scelta di indirizzo e di contenuto riformatore. Ne consegue —• riprendendo c sviluppando su questo punto il ragionamento di Sylos Labini — che se relativamente agli strumenti si dovesse accogliere la distinzione da taluni pro¬ spettata circa le scelte che la Commissione sarebbe o no legittimata a discutere, si dovrebbero allora escludere dalla competenza della Commissione, perché già escluse dalla scelta preliminare del potere politico, proprio le ipotesi che muovono dalla premessa di una conservazione dello status quo. Una simile premessa è in stridente contraddi¬ zione con le analisi su cui si fonda e le finalità cui tende la programmazione economica secondo le intenzioni — poiché solo d’intenzioni finora si tratta — delle forze politiche che la propugnano in Italia. Ma al di là di codeste intenzioni, anche oggettiva¬ mente l’esigenza della programmazione in questo pae¬ se nasce da quel complesso di problemi non risolti che si usano chiamare gli ” squilibri ” e che impon¬ gono delle scelte non soltanto sul piano delle alter¬ native tecnico-economiche ma anzitutto e soprattutto su quello dei contrasti d’interesse e di ideali tra le clas¬ si sociali. Insomma, nonostante la gran copia di disqui¬ sizioni accademiche pullulate nei convegni e nella pubblicistica intorno alla programmazione, questa 13 si presenta, da noi, intrinsecamente refrattaria alla sterilizzazione, alla sua riduzione a una pura istanza intellettualistica di razionalizzazione della economia di mercato. Tuttavia, il tentativo di ” spoliticizzazione ” della Commissione nazionale della programmazione non de- V essere sottovalutato nel suo significato politico. In¬ capace, o timorosa, di contrapporre apertamente alla politica di programmazione una sua coerente linea liberista, la destra ricorre appunto alla tattica della sterilizzazione, dello svuotamento daH’interno; ed è favorita in questa manovra dall’irrequieto velleitarismo di certi ” programmatori ”, dalla loro riluttanza a sporcarsi le mani ” con la politica e dalla propen¬ sione, invece, a civettare con le eleganze formali. In ^sostanza, quel tentativo della destra non è che un’applicazione specifica della sua più generale ope¬ razione politica di sterilizzazione del centro-sinistra: perciò va affrontato e respinto per quello che è, e non accarezzato e ricevuto come se fosse una prova di buona volontà e una promessa di futura amicizia. Profitto e potere Ciò che rende la programmazione, come dicevo, refrattaria alla sterilizzazione, è il fatto che essa ha rappresentato e rappresenta, per larga parte del mo¬ vimento operaio italiano, una precisa scelta di classe e una consapevole assunzione di responsabilità poli¬ tica. E chiaro che fuori di quella scelta e senza quella diretta responsabilità la programmazione sarebbe de¬ stinata a rimanere quel figmentum cogitationis di cui elegantemente parlava Raffaele Mattioli nella suo relazione all’assemblea della Banca Commerciale. E il fatto che in una economia mista come la nostra, la prograrnmazione ” si risolve necessariamente nella salvaguardia del profitto ” — come soggiungeva con nitidezza di giudizio, e forse con una punta di disde¬ gno verso le illusioni di palingenesi sociale degli ideologi della programmazione, lo stesso illustre ban¬ chiere umanista — non toglie nulla alla validità di queU’impegno politico, che sa di muoversi all’interno del sistema di un’economia di sfruttamento e quindi di profitto, sa che questo è il limite storico del suo operare nelle condizioni attuali della società ita¬ liana ed europea, ma sa anche che limiti e condi¬ zionamenti di portata trasformatrice e alla lunga eversiva possono essere imposti, con gli strumenti della programmazione, al processo di accumulazione capitalistica. E’ una ingenuità o una faziosità — a seconda dei casi — l’accusa fatta talvolta ” da sinistra” alla politica di programmazione, che questa non aggre¬ disce il processo di accumulazione perchè affronta soltanto i problemi degli investimenti, dei consumi, della distribuzione, degli squilibri, e cioè colpirebbe gli effetti senza risalire alla causa delle cause, alla rnolla del sistema: quasi che le riforme di struttura, che la programmazione postula e senza le quali essa non è programmazione ma soltanto vaniloquio, fos¬ sero anch’esse un figmentum cogitationis c non aves¬ sero invece la forza d incidere proprio nel funzio¬ namento del sistema, non soltanto agli effetti della utilizzazione e dello sviluppo delle forze produttive ma anche agli effetti dei rapporti di produzione e quindi dei rapporti di potere tra le classi sociali. Il limite storico di cui si diceva poc’anzi va appunto accettato e al tempo stesso superato in questo senso, che il processo di accumulazione non può essere af¬ frontato, per così dire, dall’alto, direttamente nei centri di potere che lo dirigono, ma può essere in¬ vestito dal basso, contestando, correggendo e capo¬ volgendo gli effetti che esso tende a produrre sul processo di sviluppo economico, e facendo emergere la incompatibilità tra gli obiettivi democratici deH^ programmazione per Io sviluppo e la gestione dispo¬ tica del potere di organizzare la produzione per il profitto. La programmazione sarebbe, inoltre, inconcepi¬ bile e inattuabile, come fatto democratico, senza il consenso attivo dei lavoratori organizzati nei sinda¬ cati e nei partiti. Orbene, un tale consenso, o an¬ che soltanto una pur cauta predisposizione al con¬ senso (che basterebbe, intanto, per cominciare), non potrà mai aversi se la programmazione si presenta come una politica di piccoli aggiustamenti congiun¬ turali e non di grandi riforme strutturali. Peggio, poi, se essa vien fatta dipendere — come da auto¬ revolissime fonti si va proclamando — dalla pre¬ giudiziale condizione dell’indisturbato funzionamento del sistema rebus sic stantihus: cioè, dalla garanzia, anzitutto, della ” stabilità monetaria ” e quindi della subordinazione dell’incremento della domanda all’in¬ cremento di un’offerta che si assume come arbitra delle sue scelte e delle sue strutture produttive. La dinamica salariale diventa così la variabile dipendente di una dinamica della produttività affi¬ data alle autonome decisioni dei centri di potere privato: di quei centri di potere che per quindici anni e più hanno esercitato sulla politica economica italiana una spietata dittatura di classe, sfruttando la discKcupazione e i bassi salari per una espansione capitalistica che ha del miracolo tutta la precarietà e la irripetibilità e che invano si vorrebbe perpetuare invitando i lavoratori a praticare l’austerità nel pre¬ sente per raggiungere l’opulenza nell’avvenire. Una svolta politica Perche negli anni delle vacche grasse non si è badato a rnetterc un po’ d’ordine dal lato dell’of¬ ferta, e oggi si invocano o minacciano provvedimenti dal lato della domanda? E come si può pretendere, per una politica che ha un così sfrontato contenuto di classe, di ottenere delle solidarietà politiche da parte del movimento operaio? No, la programma¬ zione non può essere un espediente per continuare come prima, per chiedere agli sfruttati di aiutare gli sfruttatori a mantenere il loro potere e i loro privilegi. Se dopo quindici anni vengono al pettine i nodi sempre più ingarbugliati di una politica eco¬ nomica tutta intessuta di imprevidenze e di sprechi, di egoismi e di favoritismi, non si può chiedere a una parte del movimento operaio — e cioè, nelle presenti circostanze, al partito socialista — di aiu- 14 tare a scioglierli solo per ricominciare poi a tessere la vecchia tela. Un partito del movimento operaio può anche assumersi responsabilità necessariamente impopolari qaundo si sia per operare una svolta nell’indirizzo politico e adottare i provvedimenti di emergenza che questa impone: ma a patto che di svolta effettivamente e sicuramente si tratti. In una situazione come questa, l’equivoco è esiziale. La partita si gioca sul senso che avrà la programmazione. sul senso che avrà il centro-sinistra. La reale alter¬ nativa tra destra e sinistra è oggi quella tra contenuto conservatore e contenuto trasformatore della pro¬ grammazione e del centro-sinistra. Bisogna perciò rendere assolutamente chiare ed esplicite le scelte politiche rispetto alle quali non possono mai esser neutrali le questioni ” tecniche ” della programma¬ zione economica. ANTONIO GIOLITTI Ricordo di Unità Popolare «li LEOPOLDO PICCARDI JN QUESTI giorni, U 7 giugno, compiono dieci anni dalle elezioni politiche che tuttora ricordia¬ mo per il loro risultato più clamoroso: la condanna della legge che, nonostante ogni moderazione di lin¬ guaggio, è difficile chiamare con un nome diverso da quello invalso allora nella polemica elettorale, di legge-truffa. E’ un avvenimento importante, t:he se¬ gna, in questo ventennio ormai trascorso dalla caduta del fascismo, la fine di una fase e 1 inizio di una nuova fase della nostra vita politica. Vale perciò sempre la pena di parlarne, per sforzarsi di chiarire quale fu precisamente il significato di quell avveni¬ mento: ma, non avendo alcun gusto personale per le commemorazioni, non coglieremmo l’occasione di que¬ sto decimo anniversario per riprendere il discorso, se questo non assumesse, nel momento che attraver¬ siamo, un particolare carattere di attualità. E poiché nessuno può ricordare fatti ai quali in qualche modo fia partecipato prescindendo dalla propria esperienza personale, ricordare la lotta elettorale del ’53 significa per noi rievocare la battaglia che, nel quadro di quella lotta, condusse il gruppo che si raccolse intor¬ no all’insegna di Unità Popolare e intorno a colui che oggi dirige questo giornale. E’ una rievocazione che, per chi fece parte di quel gruppo e collaborò alla sua azione, non può andar esente da commozione, come sempre accade quando si ricordano vicende ormai lontane nel tempo 0 si rivivono le passioni dalle quali si fu un giorno animati e si ritrova la compagnia ideale delle per¬ sone alle quali ci si sentì legati da un comune pen¬ siero e da una comune volontà. Commozione non esente da tristezza, perché il pensiero si rivolge non soltanto a coloro che oggi possiamo sentire con noi accomunati nel ricordo, ma anche e soprattutto agli scomparsi: non si può parlare di Unità Popolare senza che si riaffaccino alla nostra memoria le figure care di uomini come Piero Calamandrei, Tullio Ascarelli, Giacomo Noventa, e altri ai cui nomi è legato quel momento della vita politica italiana e della nostra esperienza personale. Senza indulgere alle tentazioni sentimentali, vor¬ remmo dire che quella di Unità Popolare fu una bella battaglia. La coscienza che il nostro paese si trovasse di fronte a una situazione estremamente gra¬ ve, la sensazione di un pericolo imminente, la con¬ vinzione che soltanto un’azione risoluta potesse evi¬ tarlo condussero a incontrarsi uomini che avevano bensì in comune la fede in alcuni principi fondamen¬ tali della convivenza umana, ma che avevano una storia personale diversa l’uno dall’altro, che avevano partecipato in varii modi alla lotta politica del paese. Nata da questa spontanea concordanza di pensieri e di propositi. Unità Popolare si impegnò nella lotta senza riserve, fuori di qualsiasi prospettiva di suc¬ cessi personali o di partito. Giovani e uomini già avanti negli anni seppero trovare, nella coscienza di un comune compito da assolvere, quella passione, quella spregiudicatezza, vorrei dire, quello spirito di avventura che assistono chi, in momenti difficili, si assume gravi responsabilità. Ciascuno diede alla cam¬ pagna il massimo contributo, fino ai limiti delle pro¬ prie possibilità di resistenza fisica; non ci si arrestò di fronte all’esiguità delle forze o alla povertà dei mezzi; si parlò dai marciapiedi, all’angolo delle stra¬ de, quando non esistevano altre possibilità. Uomini abituati a misurare le proprie azioni non esitarono ad accettare candidature nel massimo numero con¬ sentito dalla legge, tre per la Camera e tre per il Se¬ nato, affrontando le situazioni più disperate: ricordo ancora l’atteggiamento paziente e rassegnato di Ca¬ lamandrei mentre attendeva, senza esprimere desi¬ deri o preferenze, che gli si assegnassero le sue sei candidature. Uomini usi al severo linguaggio delle aule universitarie affrontarono per la prima volta nel¬ la loro vita la prova dei comizi o si mescolarono alla folla per distribuire manifestini di propaganda. L’impegno morale e il deliberato disprezzo di ogni limite segnato dalla convenzione o da ragioni di personale prestigio diedero alla campagna di Unità Popolare un carattere di novità e di vivacità che ne fecero sentire la presenza, molto al di là delle mo¬ deste forze che essa aveva potuto raccogliere. Con questa sua presenza. Unità Popolare contribuì a dare un tono alla lotta elettorale, influendo sul suo esito forse più ancora che con il pugno di voti che essa raccolse c che parvero, per se stessi, deter¬ minanti. Risultato che dà all’esperienza di Unità Po¬ is polare il valore di una testimonian 2 a a favore del metodo democratico: il quale deve essere veramente ricco di risorse, se un piccolo gruppo di uomini, privo dì mezzi e senza collegamenti con le grandi formazioni che dominano la scena politica, può con¬ correre in modo non trascurabile a determinare il corso degli eventi. Ma la lezione della coraggiosa sortita di Unità Popolare appare oggi attuale per un più specifico e prossimo riscontro che essa trova nel momento che stiamo attraversando. Quell’azione politica ebbe un successo e chi vi partecipò la ricorda tuttora con com¬ piacimento perche il disegno che ispirò la formazione di Unità Popolare e che diresse la sua battaglia tro¬ vava una rispondenza nella situazione che allora sta¬ vamo attraversando; perché gli uomini di Unità Po¬ polare seppero collocarsi su quella linea di sviluppo degli avvenimenti che meglio serviva all’affermazione dei loro comuni ideali. La legge maggioritaria rap¬ presentava l’epilogo di un processo di involuzione che si era venuto svolgendo dalla liberazione in poi. Dal clima di speranza e di solidarietà in cui si era svolta la lotta di liberazione, dalla breve fioritura di illusioni che era seguita alla sua fine vittoriosa, si era presto passati all’atmosfera pesante della guerra fredda. Un nuovo pericolo, che pareva venire dal seno stesso delle forze già unite nel combattere il fascismo, di- vise profondamente l’Italia uscita dalla Resistenza, ostacolando lo sforzo comune per ricostruire, su nuove basi di libertà e di democrazia, le sue istitu¬ zioni e le sue strutture. Dallo smarrimento prodotto da questa grande paura trasse vantaggio un partito, la Democrazia Cristiana, che, potendo valersi di una imponente organizzazione quale quella ecclesiastica c potendo fare affidamento su una tradizione di con¬ formismo, ravvivata dalle difficoltà del momento, si era trovata in condizioni più favorevoli di ogni altro movimento politico per affermare il proprio predominio. Paralisi politica Alla divisione del mondo in due blocchi cor¬ rispose così una spaccatura del nostro paese, che contrappose un raggruppamento di forze dominato dalla Democrazia Cristiana e dalla stessa Chiesa cat¬ tolica a un raggruppamento di forze a direzione co¬ munista. Le forze socialiste e di democrazia laica furono attratte, secondo le loro tendenze e le loro valutazioni della situazione, verso l’uno o l’altro dei poli sui quali gravitava la vita politica italiana, in¬ capaci, nonostante i ripetuti tentativi, di delineare e imporre una loro autonoma linea di sviluppo po¬ litico. Le conseguenze di questa situazione si riassun¬ sero presto in quella paralisi che fu chiamata, nel gergo del tempo, l’immobilismo. L’impossibilità di governare un paese così disunito e la sensazione del logorio che la coalizione di governo stava fatalmente subendo fecero nascere allora lo sconsigliato disegno di una legge maggioritaria, attraverso la quale si potesse costituire una maggioranza capace di esprimere un governo stabile ed efficiente. Ma se il sistema mag¬ ici gioritario è sempre sospetto di scarsa rispondenza ai principi della democrazia, il ricorso a esso in quelle circostanze rappresentava un vero colpo di stato, destinato a porre fuori gioco forze politiche sor¬ rette da un largo consenso popolare. Il giudizio su quell’episodio della nostra vita politica, che potè, al tempo in cui avvenne, suscitare vivaci contrasti, dividendo anche uomini vicini per convinzioni e per propositi, dovrebbe oggi trovare una facile concordia. / Il successo della legge-truffa avrebbe consolidato le posizioni della Democrazia Cristiana, attribuendole la maggioranza assoluta e rafforzando in essa le ten¬ denze integralistiche e conservatrici; i partiti di de¬ mocrazia laica, suoi alleati, avrebbero bensì ricevuto una maggior fetta della torta parlamentare, ma non avrebbero potuto evitare così la loro totale sviriliz¬ zazione c la loro pratica distruzione politica; le si¬ nistre, pKJSte fuori gioco con un disonesto espediente di tecnica elettorale, non avrebbero potuto fare a meno di ricorrere a quei mezzi di lotta che soli sono consentiti in queste condizioni. Lo svolgimento di una vita democratica in Italia ne sarebbe stato defi¬ nitivamente compromesso. La « legjre - truffa » Fu merito di Unità Popolare di avere levato la bandiera della ribellione contro una manovra che offendeva al tempo stesso le regole del gioco de¬ mocratico e i criteri della prudenza politica. Ribcl- lione tanto più significativa in quanto espressa da uomini estranei a quel raggruppamento di forze con¬ tro il quale la legge-truffa era diretta; da uomini che avrebbero potuto senza difficoltà partecipare al banchetto per il quale la Democrazia Cristiana era alla non disinteressata ricerca di commensali. Questa sua particolare posizione consentì a Unità Popolare di porre con chiarezza ed efficacia le premesse della sua azione politica: il ripudio dei metodi e degli slogans ^ della guerra fredda; l’appello alla ragione contro i richiami di un cieco fanatismo; l’obbiettivo riconoscimento della funzione che spetta a tutte le forze politiche espresse dalla volontà popolare; la coscienza che la democrazia, per evitare i pericoli che la insidiano, deve guardarsi da ogni lato; la convinzione che, in quel momento, il pericolo più grave e più imminente non fosse costituito dal co¬ muniSmo, ma da quelle tendenze clericali e conser¬ vatrici che del comuniSmo si servivano, come di uno *P^'J'^^^chio, per i loro fini. Uomini lontani dal- 1 ideologia e dai metodi comunisti, divìsi in maggiore o minore misura dalle concezioni e dalle direttive politiche del partito socialista, presero posizione, par¬ tendo da quelle premesse, accanto alle due grandi formazioni di sinistra, combattendo insieme ad esse una battaglia che aveva un preciso scopo immediato: * il rigetto della legge maggioritaria. E crediamo di poter affermare che nel coro della sinistra italiana, quale si presentò all’elettorato in quell’occasione, la voce di Unità Popolare rìsuonò sempre con il suo timbro particolare, senza compromessi né confusioni. [ OrS*» molti di coloro che militarono in Unità J T T Popolare ritengono che il problema italiano possa trovare una soddisfacente soluzione in quella formula che prende il nome di centro-sinistra: un centro-si¬ nistra che sia il frutto di una chiara scelta della DC, 2I quale le forze democratiche laiche e socialiste pos¬ sano collaborare in condizioni di parità, che sia ca¬ pace di attuare una politica di trasformazione di una società invecchiata come la nostra e delle sue strut¬ ture egualmente invecchiate, che non si sottragga alla funzione di controllo e di stimolo spettante alle forze estranee allo schieramento governativo. Purtroppo, gli sviluppi della situazione non ci fanno mancare le ragioni di preoccupazione. Rifio¬ riscono, fuori sragione, i temi della guerra fredda; 1* bruciante perdita di voti subita dalla DC risveglia le sue tendenze egemoniche; il conservatorismo ita¬ liano, cosi radicato e diffuso in ogni ceto della po¬ polazione, sta muovendo alla riscossa, atterrito dai primi timidi passi del centro-sinistra come se si trat¬ tasse dei prodromi di una sanguinosa rivoluzione. E poiché, d'altro lato, non si può ripudiare apertamente una linea di azione nella quale si sono compromessi larghi strati della classe politica, né si possono aper¬ tamente riesumare formule politiche definitivamente superate, nasce da un'inclinazione al compromesso, tipicamente italiana e cattolica, il disegno di una so¬ luzione che salvi la volontà egemonica della DC e le tendenze al cosiddetto allargamento dell’area de¬ mocratica, che concili i sacri diritti dell iniziativa privata con le esigenze della programmazione, nella quale trovino il proprio conto conservatori e progres¬ sisti, monopoli e sindacati, ceti privilegiati e masse popolari. Di fronte a queste prospettive di un nuovo ” pa¬ sticciaccio ” lo spirito di Unità Popolare può essere una valida difesa. Può tornare il momento di ricor¬ dare che i pericoli che insidiano la libertà non si evi¬ tano senza correre altri rischi; che la prudente tattica del meno peggio può essere spesso rovinosa; che qugndo una situazione appare priva di vie d’uscita, una ne esiste sempre, capace di dare risultati impre¬ veduti. Quella di essere fedeli alle proprie idee, costi quel che costi. LEOPOLDO PICCARDI NOTE E C O MMENTI La marcia sui Sudeti Omertà ,, ^ERRA’ il giorno della libe¬ razione * ha detto il mini¬ stro germanico della difesa von Hassel al raduno dei profughi te¬ deschi dai Sudeti. E’, se vogliamo, una fortuna che questo spensiera¬ to ministro, creatura di Adenaucr, abbia parlato con tanta innocen¬ za nel momento in cui governo e stampa reclamano con sempre maggior risolutezza per la Germa¬ nia il controllo suH’armamento atomico destinato alla difesa eu¬ ropea. Difesa europea? Che cosa succede se viene un nuovo suona¬ tore di flauto che intona l’aria del¬ la Grande Germania da rifare? Sconcertante paese, sconcertante socialdemocrazia. Se anche questa gente riprende una sua force de frappe, è sicuro che la frappe casca sulla testa di noi tutti. Lambrakis come Matteotti QUESTO è uno dei cartelli re- '^cati in corteo dai bravissimi giovani di Nuova Resistenza, di¬ mostranti per l’assassinio del de¬ putato greco di opposizione Lam- brakis. L’analogia è azzeccata, sia per la violenza della lotta politica ' in Grecia, sia per il furore fazio¬ so con il quale la destra intende liberarsi degli oppositori, sia pei il desanoi del Governo, sia per la disunione degli oppositori, uniti solo nel richiedere nuove elezioni non fraudolente come quelle pas¬ sate. E potrebbe anche darsi che, come da noi dopo il 3 gennaio, il Governo greco si rinfrancasse e tutto tornasse come prima. Au¬ guriamo il contrario, cioè che le opposizioni trovino un terreno di intesa leale e solido, che la pres¬ sione dell’opinione pubblica eu¬ ropea si faccia più stringente. Ci sono troppi bubboni pericolosi nel nostro piccolo occidente europeo dai quali sarebbe necessario libe¬ rarci. Sarebbe un bel giorno quel¬ lo del licenziamento della regina Federica. burocratica f L DOTTOR Gioia, già direttore generale delle Dogane, ha reso al processo Mastrella una depo¬ sizione che non potrebbe essere più mortificante per il buon nome dell’Amministrazione e della gran¬ de maggioranza dei funzionari onesti che tribolano negli uffici. Questa omertà che sembra regna¬ re, o aver regnato, nelle alte sfe¬ re di quella direzione è intollera¬ bile. E’ forse per merito di omer¬ tà che il dott. Gioia collocato a ri¬ poso ha ottenuto il posto di con¬ sigliere della Corte dei Conti? Perchè il ministero delle Finanze tace sui procedimenti disciplinari che — speriamo — ha avvia¬ to? Si sa bene come occorrano provvedimenti severi, anzi drasti¬ ci. Circolano voci sgradevoli su altri uffici finanziari relativi ad ac¬ certamenti tributari. Bisogna col¬ pir duro, e colpire esemplarmente. 11 Le aspirazioni modeste ! - -—--- di ARTURO CARLO JEMOLO J^ON DIREI che tra gli uomini politici attuali ab¬ bondino quelli che sentano come Cesare: meglio primi nell ultimo villaggio delle Alpi che secondi a Roma. Paiono tutti desiderosi di essere alleati minori della democrazia cristiana; tutti bramosi di venire scelti, più d uno timoroso che altri non gli contenda questo posto di alleato primo in ordine d’importanza. Mi chiedo se non sarebbe un vero senso di sbi¬ gottimento quello che coglierebbe tutti se un giorno la democrazia cristiana non fosse più il partito di maggioranza relativa, il perno intorno a cui deve gra¬ vare ogni combinazione; probabilmente più sbigottiti di ogni altro i comunisti, almeno gli uomini politici del comuniSmo. Ben a ragione; come non dovrebbe temere ogni mutamento, ed in particolare il rischio di assumere il potere, chi in una comoda posizione di opposizione ha sempre approvato ogni assalto allo Stato, non ha mai ricordato che esistono obblighi? La diminuzione di voti della democrazia cristiana ha fat^o piacere a molti solo perché non le toglieva la maggioranza relativa e le consentiva di restare il perno di ogni combinazione; perchè doveva portarla a maggiori concessioni ad alleati, a dare posti di go¬ verno o postiete, sia pure in proporzioni notevol¬ mente attenuate, per la socialdemocrazia, per il partito repubblicàno, per il movimento sociale, e non vorrei che tra poco dovesse ripetersi anche per il partito socialista. Soli, partito liberale e partito comunista mostrano una struttura omogenea. ^EDREI come soluzione logica una combinazione Scelba-Gonella-Malagodi, e non avrei nemmeno timore che facesse le sue prove. Il liberismo è facilmen¬ te predicabile allorché non si è al governo, ma mi pare ben difficile ad attuare, soprattutto quando non ci sono classi ricche disposte a compiere spontanee rinuncie, ad attuare esse quel che fanno i governi non liberisti nel cam|X) sociale. Preferirei naturalmente una combinazione Fanfani- Saragat-Nenni. Ma in un caso come nell’altro, che ciascuno por¬ tasse con sè sostenitori omogenei, convinti del pro¬ gramma che il governo si accingerebbe ad attuare. La democrazia cristiana com’è costituita ora o resta nell’immobilismo, o deve necessariamente con¬ trobilanciare ogni spinta con una spinta opposta. La nazionalizzazione dell’industria elettrica è stata controbilanciata con la rapida liquidazione della pO" litica del povero Mattel nel campo degl’idrocarburi (quei solenni funerali resigli avevano un po’ l’aspet¬ to di un sospiro di liberazione) e con la eliminazione di Fanfani: se si guardano giornali e giornaletti di de¬ stra, si vede che l’hanno accolta come una soddisfa¬ zione data loro. Non giudico: può darsi che quella nazionalizza¬ zione, così com’è stata compiuta, non sia stata felice, che sia stato giusto liquidare la politica di Mattei; ma mi pare chiaro che al colpo a sinistra è seguito quello a destra. In un partito assolutamente eterogeneo, ma con due masse contrapposte di cui per l’una è bene quella che per l’altra è male, non sarebbe possibile operare altrimenti. E’ probabile che il segretario del partito abbia con senso di uomo politico fiutato le sue mas¬ se ed il punto di resistenza oltre cui non era possibile andare, allorché ha rifiutato ai socialisti le regioni, ed ha disimpegnato il partito. ^LTRI può opporre che questo è vero, ma che la massa degl’italiani non dimostra grande desiderio di novità; che ciò che il segretario del partito di mag¬ gioranza ha ritenuto rispetto al suo partito — po¬ litica del colpo a destra e di quello a sinistra; con l’avvertenza di non urtare certe avversioni profonde, di non oltrepassare il limite oltre cui potrebbero aversi reazioni violente —, può bene come capo di governo ritenerlo del pari opportuno per la nazione. Ed il contegno dei capi dei diversi partiti gliene da¬ rebbe appunto conferma. Ma c’è stata quella diminuzione di voti e quella massa di voti di dispetto andati al partito comunista, a dire che le cose non stanno così. Che questi ita liani, purtroppo così poco idonei per l’organizzazione, così incapaci a fondare nuovi partiti, ad imitare i loro nonni che con il buon volere supplivano alla man¬ canza di mezzi, così poco fatti per lo spontaneo la¬ voro comune, hanno però l’insofferenza; avvertono qualcosa che non va. E questo qualcosa che non va è l’erosione dello Stato. Non prodotta dalla partitocrazia, così discara a quanti hanno la nostalgia degli uomini provviden¬ ziali, ma dai partiti che non sono partiti, bensì coa¬ lizioni di uomini dalle vedute quanto possibili di¬ scordi, uniti solo per mantenere il potere. Leggo dalla sua creazione II centro, il settimanale di Sceiba e Gonella. Rispettoso per le idee che vi si esprimono, se pur non siano le mie, trovo invece deleterio che si possa proclamare ad alta voce che un certo governo 18 è nefasto per il bene del Paese, ma che gli si darà il voto, che certe leggi sono esiziali, ma le si approve¬ ranno. I religiosi che osservano il voto di obbedien¬ za almeno tacciono, e forse hanno anche la docilità interiore. Dire che si vota ciò che è male, ciò che è cat¬ tivo, perché la disciplina di partito lo impone, e questo non in un momento unico, eccezionalissimo, ma quotidianamente, senza limiti di tempo, è proprio quel minare l’idea di Stato, dire che il parato, come coalizione di uomini, conta più dello Stato, in defini¬ tiva del popolo. Questo è ciò che sia pure indistintamente mi pare stiano avvertendo gl’italiani, ribellandovisi; e se questa ribellione risponde ad un desiderio di chia¬ rezza, al desiderare, oltre gli uomini e le frasi vuote, i piani concreti, ringraziamone Dio. ARTURO CARLO JEMOLO lettera da PARIGI La Francia dopo De Gaulle di LUClAm BOLIS J RECENTI congressi UNR, MRP, e SPIO hanno avuto tutti una spinta comune: il desiderio di porre le basi per un’autoaffermazione a lunga scadenza, assumendo come termine di riferimento temporale il momento, vicino o lontano che sia, della scomparsa di de Gaulle. Trattisi di attentato (improbabile, dopo il tramonto dell’ÒAS), di morte naturale (il generale ha 72 anni) o di sdegnoso ritiro sotto la tenda per qualsivoglia questione di menomato prestigio (... c non sa¬ rebbe la prima volta!), la scompar¬ sa di De Gaulle creerà un vuoto sulla scena politica francese, almeno grande quanto è oggi la sua pre¬ senza, che appare effettivamente co¬ sì ingombrante da non lasciare più posto per nessun altro, le forze del¬ l’opposizione non meno che i suoi Stessi sostenitori. Com’è naturale, tutti si sentono ormai la precisa vocazione storica di occupare quel vuoto, e anzi di¬ mostrano sin d’ora di volercisi pre¬ parare con cura, per quando si pro¬ durrà. Per le opposizioni, le ultime oc¬ casioni di contrastare la marcia trionfale del gollismo sono stati il referendum istituzionale di ottobre, che ha introdotto la nuova regola delle elezioni presidenziali, e le ” po¬ litiche " di novembre, che hanno effettivamente sancito l’appoggio del popolo francese alle forze e agli uomini del seguito di de Gaulle. A favore delle opposizioni mili¬ tavano allora la cessazione dell’in¬ cubo algerino e dei suoi prolunga- menti metropolitani, nonché la no¬ tevole disinvoltura costituzionale del capo dello Stato. Ma più forti di ogni altra considerazione si mostra¬ rono invece, per la maggioranza de¬ gli elettori francesi, il timore di un ritorno al vecchio regime delle in¬ vestiture parlamentari, e per contro l’aspirazione a una stabilità di go¬ verno che l’uomo del 18 giugno si prestava a garantire meglio di chiun¬ que altro. G)n sulle spalle il peso di quel¬ le dolorose esperienze, da cui si lasciarono cogliere del tutto impre¬ parate, le opposizioni si sono fi¬ nalmente rese conto che era del tutto fatica sprecata quella di con¬ tinuare a spendere fiato e energie per predicare l’inversione di una rotta che la navicella gollista do¬ veva evidentemente percorrere sino in fondo. Di qui il loro progressivo distac¬ co da tutte le possibili occasioni offerte dalla politica contingente. Lo stesso grande successo dello scio¬ pero dei minatori, nel marzo scorso, e due mesi prima l’improvvisa no¬ tizia della rottura dei negoziati con l’Inghilterra, non sono stati politi¬ camente sfruttati dalle opposizioni così come certamente lo sarebbero stati se l’equilibrio del potere sì fosse presentato come ancora abba¬ stanza fluido e non già cristallizzato. Di qui anche i reiterati propositi di ripensamento manifestatisi a più riprese in tutti i partiti nel corso di questi ultimi mesi, come i recen¬ ti congressi hanno cominciato con¬ cretamente a testimoniare. La vagheggiata opera di rinnova¬ mento in tutti i partiti si va com¬ piendo con fatica, sotto il fuoco di fila degli strali che singoli gruppi e personalità gareggiano nel lanciarsi l’un l’altro, nel tentativo sterile, ma vecchio quanto il mondo, di trarre ciascuno giovamento dalle disgra¬ zie e imperfezioni altrui. In una situazione apparentemente così confusa, è naturale che variino e divergano anche i giudizi sulla na¬ tura e il significato storico del gol¬ lismo, questo fatto, apparentemen¬ te nuovo, che ha così profondamen¬ te rivoluzionato, condizionandola, tutta la problematica politica fran¬ cese dell’ultimo quinquennio. I giudizi sono interamente con¬ trastanti tra loro, ma in essi è però possibile rilevare una tendenza che è sostanzialmente identica, anche se appare motivata da considerazioni opposte. E’ la tendenza a non ridurre il gollismo a semplice riflesso della personalità del suo capo, identifi¬ candolo in essa, ma a fissarlo con caratteri più obiettivi e permanenti sul piano stesso della scienza poli¬ tica e della storia. E’ in questo nuovo tentativo di interpretazione del gollismo non co¬ me semplice appendice di de Gaul¬ le, ma come complesso e originale fenomeno storico implicante tutta una revisione dei tradizionali con¬ cetti e rapporti di libertà e auto¬ rità, esecutivo e legislativo, cit- 19 ladino e Stato, che risiede il signi¬ ficato dei recenti congressi e si estrinseca la loro aspirazione a rap¬ presentare un’effettiva apertura. L’esperienza storica del gollismo comincia comunque a pesare sulla formazione degli stessi antigollisti, che sempre in maggiore numero vanno convincendosi della necessi¬ tà di tenere conto anche degli in¬ segnamenti che, sia pure per assur¬ do, esso ha fornito ai francesi, at¬ traverso l’esposizione delle proprie lacune e dei propri errori. Non più quindi un gollismo me¬ ramente episodico — colpo di ma¬ no di militari a caccia di potere o wgno di grandezza di un’ennesima incarnazione nazionale, — come ce lo presentavano le cronache dei pri¬ mi tempi, ma verità profonda, gra¬ datamente imponentesi sulla realtà quotidiana; rottura, non certo ca¬ suale, di una consuetudine parla¬ mentare, già condannata nei fatti; ed espressione di crisi acuta, neces¬ sitante cure non improvvisate Ecco il complesso delle preoc¬ cupazioni e speranze che, sulla scor¬ ta dell’ex ministro democristiano Buron, si è tacitamente convenuto di riassumere nell’avveniristica for¬ mula di post-gollismo. Dietro questo neologismo — ma¬ gistralmente presentato ai lettori del Monde da Jacques Fauvet, che è uno dei più accorti osservatori fran¬ cesi del fenomeno gollista — pos¬ siamo agevolmente riconoscere tre fondamentali atteggiamenti di pen¬ siero, rivelatori di altrettante, incon¬ ciliabili soluzioni: lo schieramento, che si vorrebbe compatto, delle si¬ nistre nazionali, per cui il gollismo va battuto frontalmente sul terreno della lotta di classe (donde le re¬ centi avances di un Mollet ai co¬ munisti e il rinnovato mito dell’uni¬ tà sindacale, da realizzarsi natural¬ mente in seno alla CGT e sotto la spinta sostanziale di questi ulti¬ mi); lo schieramento, più informe e variopinto, delle opposizioni, cat¬ toliche e radicali, di centro, dove molti ancora s’illudono di potere digerire il gollismo, convertendolo alle proprie irrinunciabili esigenze di democrazia, così come Giolitti, al¬ la vigilia della Marcia su Roma, poteva ancora desiderare di ” assi¬ milare ” il fascismo; e infine lo stes¬ so composito schieramento dei neo¬ gollisti, per i quali il problema è oggi soprattutto quello d’impian¬ tarsi più stabilmente nel paese, so¬ stituendosi in ogni provincia, con le più baldanzose schiere dei pro¬ pri improvvisati sostenitori, alle vecchie clientele tradizionali, che fa¬ cevano il buono e il cattivo tempo a ogni elezione. li gioco alterno di queste forze e delle soluzioni che esse rappre¬ sentano condiziona e condizionerà ancora per un pezzo gli alti e bassi della politica francese: oggi, come rapporto astrattamente dialettico tra opposizioni e governo; domani, co¬ me effettiva alternativa di potere da proporre concretamente ai francesi, perché possano finalmente scegliere tra un sostanziale, anche se più o meno mascherato, ritorno al pre¬ gollismo, e una presunta continuità gollista, ma senza più de Gaulle; se non vorranno tentare invece nuo¬ ve vie che, rompendo con le con¬ traddizioni del passato, siano dav¬ vero un ponte aperto sull’avvenire. LUCIANO BOLIS lEHERA DAU'AMERICA Birmingham e la Luna ^ENTIDUE giri intorno al mondo: in maggio nessun avvenimento nazionale o intemazionale ha assorbi¬ to l’attenzione del pubblico america¬ no più del volo del maggiore Cooper. Sono passati al secondo posto i pro¬ blemi razziali del sud e quelli econo¬ mici del nord; almeno per un po’ di tempo, sono passate pure al se¬ condo posto le preoccupazioni che destano fidelismo, maoismo, nasse- rismo e gollismo. L’entusiasmo che ha accompagnato il successo del volo è stato sincero, generale e rumoroso. Sono stati fatti confronti, favorevoli è naturale per gli americani, con le in^rese spaziali sovietiche, e si è di fiusa la convinzione che gli Stati Uniti hanno guadagnato parte del terreno perduto in seguito alla deci¬ sione del Congresso dieci anni fa di di MAX SALVADORl ridurre i crediti necessari alle ricer¬ che ed alle esperienze spaziali. Molti già sono convinti che gli americani potranno essere i primi ad arrivare alla luna: quando? gli esperti par¬ lano del 1968. La prima fase degli esperimenti — il progetto Mercu¬ rio — è terminata, o sta terminando, con successo. Poi nel 1964-65 vi sarà la seconda fase — il progetto Ge¬ mini: due astronauti potranno pren¬ der posto nel bolide che sarà più grande di quelli usati fino ad ora e dovrà esser lanciato nello spazio da razzi più potenti. Poi vi sarà la terza fase — il progetto Apollo: quando piedi umani toccheranno il suolo lu¬ nare saranno trascorse dieci o dodici generazioni dall’epoca in cui con i trattati di Bacone, Galilei e Descar¬ tes sul « metodo », ebbero inizio il razionalismo moderno e lo sviluppo del pensiero scientifico. Vi è naturalmente il problema del costo dell’impresa: dai 20 ai 40 mi¬ liardi di dollari, dicono gli esperti; questo vuol dire con tutta probabi¬ lità una spesa superiore ai 50 mi¬ liardi. Quanti si preoccupano del pa¬ reggiamento del bilancio, della ridu¬ zione del debito nazionale, della so¬ lidità del dollaro — e sono mi¬ lioni — brontolano: può darsi che, come avvenne dieci anni fa, la pru¬ denza — se prudenza si può chia¬ mare — trionfi; in quel caso i so¬ vietici troveranno il campo libero e non avranno difficoltà ad essere i pri¬ mi sulla luna. D’altra parte, obbiet¬ tivamente, la preoccupazione econo¬ mica di molti è eccessiva: anche se l’economia americana continua a svi¬ so Wparsi a ritmo relativamente mo- apto come è avvenuto durante gli ultimi anni, e per quanto male pos¬ sano andare le cose, il reddito nazio¬ nale americano raggiungerà, o supe¬ rerà, nel 1968 i 700 miliardi di dol¬ lari, somma più che sufficiente per assicurare il successo del progetto Apollo senza pesare eccessivamente sul pubblico. La corsa alla luna non ® più ormai un problema che deb¬ bano risolvere scienziati ed inge¬ gneri, è sempbcemente questione di denaro. ptJR NON volendoci pensare, Bir¬ mingham è stata presente per tut¬ to il mese di maggio nella mente se non altro della minoranza di citta¬ dini americani i quali sinceramente SI preoccupano deU’avvenire della demcxrazia negli Stati Uniti; e con Birmingham sono state presenti de¬ cine di altre località del sud, ed an¬ che parecchie località del nord dove SI sono avute manifestazioni di bigot¬ tismo razzista. (Questo è avvenuto in particolare nei grandi centri indu¬ striali dove è forte l’ala che potrebbe essere descritta come democristiana del Partito Democratico — da Bo- ?ton a Chicago: i discendenti di irlandesi, polacchi, italiani, franco¬ canadesi, ecc., oggi « arrivati » so¬ cialmente, cioè economicamente e politicamente, non vogliono ricono- ^ere alle comunità di gente di co¬ lore quell’uguaglianza che essi stessi reclamavano non molto tempo fa nei confronti degli yankees, e che hanno ottenuto). E’ bene ricordare che gli btati Uniti non hanno il monopolio delle discriminazioni anche se se ne parla e se ne scrive di più che in •fualsiasi altro paese; che in Stati 3 partito unico collettivisti e non col- jttivisti sono oppresse, a volte fino All’estinzione, comunità razziali, na¬ zionali, religiose ed altre; che a fa¬ vore degli Stati Uniti è una Costi- tuzione che dà ai cittadini la possi¬ bilità di agire per eliminare, o al- •neno per alleviare, ingiustizie. Quello che preoccupa gli amici degli Stati Uniti è l’atteggiivmento della maggioranza della popolazione la quale evidentemente è inoilferente ® contraria ai princìpi sui quali la istituzione è fondata. Sta al potere giudiziario in particolare il far ri¬ spettare la Costituzione, ma non ba¬ stano le decisioni dei giudici i quali, ^pra tutto dal 1954 in poi, hanno ratto il possibile per eliminare la discriminazione razziale nel settore delle attività pubbliche. Per raggiun¬ gere l’uguaglianza nella libertà oc¬ corre che vi siano larghi settori del pubblico animati sia dal senso della libertà che da quello dell’uguaglian¬ za: è chiaro che questi settori non sono sufficientemente larghi per assi¬ curare il successo di una politica antidiscriminatoria. E’ anche chiaro che nei confronti di una popolazione che aumenta rapidamente, questi settori diminuiscono come percen¬ tuale numerica e come influenza cul¬ turale e perciò anche politica. Elimi¬ nata in un punto, la discriminazione riappare altrove, spesso più vigorosa. Le decisioni della Gjrte suprema e degli altri tribunali federali trovano l’ostacolo di un muro fatto di pregiudizi, di luoghi comuni assurdi, di timori scioc¬ chi, di miopia nei riguardi di interessi economici. Invece di essere smantellato, il muro diventa più spesso e più alto; a rafforzarlo in¬ terviene l’elemento nuovo in rapida diffusione del razzismo negro — spiegabile e giustificabile ma ugual¬ mente nocivo alla causa della paci¬ fica coesistenza di razze diverse. Vie¬ ne da domandarsi se forse non è già tropjx) tardi per raggiungere lo scopo al quale miravano i progres¬ sisti bianchi convinti che la solu¬ zione al problema razziale era l’in¬ tegrazione dei negri nella cultura americana: aumenta, sopra tutto fra i giovani, il numero di negri colti i quali non vogliono diventare ame¬ ricani ma vogliono la creazione di una nazione negra separata da quella bianca degli Stati Uniti. gONO PASSATI i tempi quando pochi americani, relativamente, si interessavano al commercio con l’e¬ stero: Tanno scorso le esportazioni hanno superato i 20 miliardi di dolla¬ ri e le importazioni i 16 miliardi. Co¬ me percentuale del reddito nazionale, il commercio con l’estero degli Stati Uniti resta inferiore a quello di molte nazioni europee, ma come to¬ tale rappresenta una cifra enorme, ed è un elemento di prim’ordine nel benessere della nazione americana. Non è da sorprendersi perciò se molti si sono interessati a quello che avveniva alla recente riunione del GATT a Ginevra, dove era in di¬ scussione la riduzione delle tariffe doganali. L’anno scorso il Congresso aveva autorizzato il Presidente a concludere accordi commerciali con altri stati sulla base di concessioni reciproche che avrebbero avuto co¬ me , risultato T intensificarsi degli scambi. Grande fu la costernazione della delegazione americana quando i membri più influenti della riu¬ nione respinsero la proposta fatta da Herter di una riduzione generale delle tariffe: le autorità di Washing¬ ton non avevano preso in conside¬ razione il fatto che quello che sem¬ brava generoso da una parte del¬ l’Atlantico, diventava oneroso dal¬ l’altra parte. Un quinto delle tariffe americane infliggono alle merci im¬ portate una dazio che supera il 30 per cento del valore; per l’Europa considerata complessivamente solo l’un per cento delle tariffe raggiun¬ ge un tasso così elevato. La situa¬ zione non cambia: da un secolo e mezzo gli americani parlano della necessità di una liberalizzazione del commercio mondiale; però continua¬ no ad avere un protezionismo supe¬ riore a quello degli altri stati, nè hanno intenzione di modificarlo ra¬ dicalmente. MAX SALVADORI LA PAROLA DEL POPOLO Rivista di politica e cultura in lingua italiana fondata nel 1908 Direttore: EGIDIO CLEMENTE Direttore per Tltalia: Vincenzo Terranova Respoiiaahile della parte letteraria: Nino Caradonna Redazione: 627 West Lake Street, Chicago, Illinois Redazione per Tltalia: Largo Lilierotti 18, C.P. 13, Terni Abbonamenti annuali per Tltalia: ordinario L. 2000, soste¬ nitore L, 5000, Bost. onorario L. 10.000. Un numero L. 300 _l 21 lA NATO DOPO OTTAWA I mìssili inutili dell’Europa di ALDO GIOBBIO T A SERA del 20 maggio l’amba¬ sciatore sovietico Dobrinin ha consegnato al Dipartimento di Sta¬ to americano una nota contenente la proposta di fare del Mediterraneo una zona di disarmo atomico. Poi¬ ché la nota arrivava alla vigilia della sessione di primavera del con¬ siglio dei ministri dell’Alleanza atlantica (Ottawa, 22-24 maggio), il cui tema era la discussione della proposta americana dì una forza atomica multilaterale (o, nella for¬ ma inglese, attenuata, della propo¬ sta — che si è visto essere poi la sola con un minimo di proba¬ bilità di essere accettata dagli altri — multinazionale), e poiché la consistenza concreta della forza mul¬ tilaterale (o multinazionale) è data dai tre sommergibili Polaris che, in una forma o nell’altra, il governo americano è ben deciso a tenere nel Mediterraneo, il passo sovie¬ tico è stato subito bollato a fuoco dal Corriere della Sera c dagli altri giornali di stretta osser¬ vanza atlantica come il solito ten¬ tativo dei diabolici cervelli orien¬ tali di spargere la confusione e il dubbio nella compagine occidenta¬ le, in un momento particolarmente delicato della sua esistenza. Monopolio atomico Occorre dire, a scanso di equi¬ voci, che nemmeno il Corriere del¬ la Sera è particolarmente entusiasta della forza multinazionale, giudican¬ dola esso, come effettivamente è, un espediente neanche poi tanto ben mascherato per indurre i paesi del¬ l’Europa occidentale a rinunciare al¬ le loro piuttosto ipotetiche forces de frappe e a lasciare in aeternum il controllo dell’arma atomica in mano degli americani. Il timore del Corriere è, tuttavia, che gli ame¬ ricani possano servirsi del loro mo¬ nopolio atomico per non farne uso nel caso di un attacco sovietico li¬ mitato alla sola Europa: ossia, in fondo, ciò che esso teme è che la cosiddetta forza multinazionale si traduca di fatto nel disarmo atomi¬ co del Mediterraneo, e non, come si potrebbe credere, che essa au¬ menti le concrete possibilità di guerra atomica nel Mediterraneo stesso. Vi sono attualmente alcune ra¬ gioni per ritenere che la posizione del Corriere della Sera (conforme¬ mente, del resto, alla tradizione dei benpensanti italiani di essere sem¬ pre più realisti del re) sia sensi¬ bilmente più oltranzista della stessa dottrina ufficiale della NATO. L’i¬ dea di fare dell’Europa, o di una parte di essa, una zona di disarmo atomico ha fatto molta strada dal¬ l’ottobre 1957, quando il piano Rapacki (che rimane tuttora la più completa formulazione in materia) urtò contro la più assoluta incom¬ prensione da parte degli occiden¬ tali. Il 3 marzo 1961 Paul-Henri Spaak si dimise da segretario ge¬ nerale della NATO in seguito ad un contrasto con la amministrazione americana: Spaak sosteneva allora la necessità di fornire all’Alleanza atlantica un deterrente autonomo, ossia dipendente dagli organi di¬ rettivi dell’Alleanza stessa, e non dalla sola volontà dell’amministra¬ zione americana. Oggi la dottrina ufficiale dell’amministrazione ame¬ ricana è molto più vicina alle posizioni di Spaak di due anni fa che non alle proprie di allora. Spaak sosteneva allora che il deter¬ rente NATO fosse l’unico mezzo per impedire la proliferazione degli armamenti atomici nazionali; l’am¬ ministrazione americana offre oggi una soluzione analoga, per impe¬ dire il fenomeno temuto e denun¬ ciato due anni fa da Spaak, c in particolare la costituzione di ione atomiche nazionali francesi e tede¬ sche. Ma lo stesso Spaak, in questi due anni, ha compiuto un altro pas¬ so avanti, e, mentre i benpensanti tipo Corriere della Sera arrivano oggi al concetto di deterrente atlan¬ tico, il cui impiego dovrebbe esse¬ re deciso a maggioranza dai mem¬ bri dell’Alleanza, e non dai soli Stati Uniti, il ministro degli Esteri belga, in un’intervista alle Isveslia, si dichiara favorevole alla creazione di una zona di disarmo atomico in Europa, e accetta la proposta ame¬ ricana di forza multilaterale proprio per il motivo per il quale il Cor¬ riere della Sera la rifauta: perché ” essa sarebbe un pegno del fatto che i paesi che vi partecipano non avrebbero armamenti nucleari a lo¬ ro disposizione ”. Al di là della sua dottrina ufficiale del 1961 e di ^nel¬ la ufficiale americana di oggi, 1° Spaak del 1963 raggiunge Varrière- pensée americana di oggi: che le bombe atomiche sono una cosa trop¬ po grande per l’Europa. PropoHta laburista Contemporaneamente, i laburisti britannici, un partito che ha ottime probabilità di essere in un futuro imminente il partito di governo del più importante dopo gli Stati Uniti fra i paesi occidentali (c. non dimentichiamolo, l’unico, oltre gli Stati Uniti, che bene o male di¬ sponga di una forza ” H ” propria, anche se resa monca dalla mancanza di un veicolo adatto), dichiarano apertamente nel loro programma la loro intenzione di fare della Gran Bretagna la promotrice di un club non-atomico, e Herman Kahn, il più coerente fra i teorici della for¬ za d’urto, afferma che la proposta laburista é ” di speciale interesse. U cd è un peccato che non sia stata !” P*” considerazione ”. opinione di Kahn è che l’apporto delle forze armate europee alla di- tesa degli Stati Uniti sia quasi tra¬ scurabile, e che, per la stessa sicu¬ rezza degli Stati Uniti, sarebbe più utile poter contare sulle maggiori possibilità di azione diplomatica che deriverebbero a dei paesi amici dal di essere liberi da impegni militari rigidi. Due fatti hanno contribuito a spingere l’amministrazione america¬ na, in questi ultimi due anni, sulla via di una completa revisione della tradizionale strategia americana. Il primo è l’atteggiamento di de Gaul- m. Tutto lo sforzo dell’amministra¬ zione Kennedy, in questi due anni, e m particolare del Segretario di Stato alla Difesa, McNamara, si è concentrato su due obbiettivi: 1 ) dare agli Stati Uniti i mezzi per una serie di azioni graduali, senza dover necessariamente arrivare, ad ugni aumento della tensione mon¬ diale, alla minaccia del finimondo atomico; 2) subordinare l’eventuale uso delle armi capaci di suscitare mie finimondo alla capacità di de¬ cisione dell’uomo in cui si accen- fra la massima responsabilità, ossia il presidente degli Stati Uniti, eli¬ minando tutti quei centri di deci¬ sione collaterali che pullulavano sot¬ to l’amministrazione Eisenhower e che moltiplicavano per cento e per mille il pericolo della ” guerra per caso Per quello che ne sappia¬ mo, questi obbiettivi sono stati in larga misura raggiunti. E’ quindi ovvio che il presidente americano sia totalmente contrario ai progetti di de Gaulle, la cui realizzazione metterebbe in scacco il lavoro fatto sino a questo momento dall’am¬ ministrazione Kennedy; 1 ) perché, conformemente a quella che è stata in tutto il dopoguerra la dottrina dei teorici francesi (Gallois, Char- pentier), le armi atomiche sareb¬ bero per la Francia non la suprema risorsa da usare all’ultimo momento, quando ogni possibilità di fronteg¬ giare il nemico con le armi conven¬ zionali fosse venuta meno (quale è oggi la dottrina McNamara), ma l’opportuna integrazione all’arma¬ mento convenzionale, che sola met¬ terebbe l’esercito convenzionale francese in grado di resistere al¬ l’attacco di un nemico (nella fat¬ tispecie rURSS), la cui superiorità nel campo convenzionale si dà per scontata. Questo significa che, men¬ tre gli Stati Uniti affermano che userebbero le proprie armi nuclea¬ ri solo se il nemico per primo por¬ tasse la guerra su questo piano, la Francia le userebbe sempre e co¬ munque, perché il suo esercito o sarebbe un esercito atomico, o non sarebbe nulla; 2) la proliferazione dell’armamento nucleare riprodur¬ rebbe la situazione dei molteplici centri di decisione, che Kennedy si è sforzato fin qui di eliminare. Se la politica di de Gaulle, con le conseguenze che essa comporta, agisce in modo da obbligare l’am¬ ministrazione americana a prendere posizione contro il diffondersi del¬ l’armamento nucleare, essa da sola non basterebbe a far accettare agli americani l’idea di un disarmo ato¬ mico dell’Europa, inteso non solo nel senso che le nazioni europee non debbano avere un armamento proprio, ma anche in quello che non debbano esserci in Europa basi atomiche americane. Ma un secondo fatto, accompagnato da un certo ordine di considerazioni, potrebbe indurli ad accettare anche questa ipotesi. Gli ultimi anni dell’amministra¬ zione Eisenhower sono trascorsi nel¬ la psicosi del missile gap. Ai primi del 1959, l’allora sottosegretario di Stato alla Difesa, McElroy, dichiarò che nel 1961 l’URSS avrebbe avu¬ to un vantaggio di 3 a 1 in missili intercontinentali (ICBM), ossia che si sarebbe trovata a disporre di 600 missili. Supponendo una testa di guerra di 5 megaton e un margine di errore dello 0,1 per cento, questi 600 missili sarebbero stati in grado di distruggere almeno cento ber¬ sagli situati sul suolo americano, ossia di cancellare quasi tutto il di¬ spositivo dello Strategie Air Com- mand, sul quale allora si basava la forza d’urto americana (poiché non bisogna dimenticare che ancora nel febbraio 1960 tutta la forza mis¬ silistica intercontinentale americana consisteva in un solo missile Atlas, a combustibile liquido). Secondo (da Trance Observateur) 23 dati attendibili (gli ultimi forniti da un’isiiiuzione ortodossamente oc¬ cidentale quale YhtstUut for Stra~ Uve Silici ies), risulterebbe che ! èJR'iS disponeva alla fine del 1961. ii; 5U ICBM, alla fine del 1962 di T'.'J e che nel corso di quest’anno nc stia costruendo altri 25. Nel frattempo gli americani hanno co¬ struito più di 200 ICBM del tipo Miiiuteman (a combustibile solido), e hanno messo in cantiere un pro¬ gramma che, contro i 600 Minute- tnen previsti ai primi del 1961 per la fine del 1964, ne lascia prevedere, dato il ritmo di produzione di più di un missile al giorno, circa 1.200 entro la stessa data, per ra^iungere infine entro il 1967 la cifra vera¬ mente impressionante di 2.000 mis¬ sili intercontinentali. Ciononostante, convinti di un’inferiorità inesisten¬ te nel campo degli ICBM, essi han¬ no riempito l’Europa di missili di media gittata (IRBM), con lo ko- po dichiarato di sopperire con l’av¬ vicinamento delle basi all’obbietti- vo alla minore gittata dei missili in questione, e quindi poter uti¬ lizzare anch’essi per colmare il sup¬ posto missile gap. Questi missili so¬ no oggi 250, e contro di essi stan¬ no puntati 700 IRBM russi. La dottrina della NATO Che cosa significano queste ci¬ fre? Significano, innanzi tutto, che rURSS non ha nessuna inteiizione di attaccare p>er prima gli Stati Uni¬ ti. La dottrina ufficiale della NATO è stata in questi anni quella che l’URSS avrebbe cercato di distrug¬ gere con un solo colpo di sorpresa il dispositivo atomico americano, per poi continuare la guerra con le armi convenzionali, sfruttando la sua superiorità in questo campo per invadere l’Europa occidentale una volta che gli Stati Uniti non sareb¬ bero più stati in grado di difender¬ la. Questa dottrina si è rivelata palesamente errata. Nessun dirigen¬ te russo può essere così pazzo da pensare di poter distruggere tutte le basi missilistiche americane con soli 75 o 100 ICBM, e, quanto ai 700 IRBM, essi non possono rag¬ giungere il continente americano. Pertanto, se i russi attaccassero per primi, agli americani resterebbero intatte abbastanza rampe di lancio da infliggere ai russi una ritorsione tale da rendere l'operazione pazze¬ sca. D’altra parte, poiché è comu¬ nemente ammesso che il vantaggio iniziale e l’alto livello tecnologico deirURSS le avreb’oero permesso di munirsi di una forza d’urto dieci volte superiore, ne consegue che, se i russi non se la sono procurata, è perché non l’hanno voluta. Inol¬ tre, 75 o 100 missili, puntati non sulle rampe, ma sulle principali cit¬ tà americane, possono produrre un numero tale di morti (valutabile tra i 50 e i 100 milioni) da sco¬ raggiare qualsiasi aggressione. Na¬ turalmente, perché questo sia pos¬ sibile, occorre che le basi siano tali da resistere ad un eventuale primo attacco del nemico. Ma questo non è un grosso problema, perché i russi contano, oltre che su quegli accorgimenti di protezione e di mo¬ bilità che sono adottati anche da¬ gli americani per le proprie basi, su un’estrema segretezza circa la lo¬ ro ubicazione (sia detto per inciso, è proprio il fatto che la segretezza sia un elemento così essenziale alla loro sicurezza che rende i russi così restii ad accettare, a qualunque ti¬ tolo, ispezioni sul loro territorio). La stessa ripresa degli esperimen¬ ti nucleari nel settembre 1961 è una riprova del carattere sostanzial¬ mente difensivo della strategia nu¬ cleare sovietica, giacché è chiaro che, disponendo i sovietici di rela¬ tivamente pochi missili, ma, in com¬ penso, di un materiale qualitativa¬ mente eccellente, sia come precisio¬ ne che come potenza (come dimo¬ strano i risultati spettacolari otte¬ nuti nel lancio dei satelliti artifi¬ ciali), il modo più economico di sfruttare questa superiorità quali¬ tativa è quello di caricare ogni mis¬ sile con una grossa bomba (magari da 50 megaton), e non con una piccola, come sarebbe il caso se si disponesse di un numero elevato di missili relativamente imprecisi e destinati a colpire un bersaglio re¬ lativamente piccolo, come può esse¬ re una base missilistica, e non un bersaglio molto grande, quale può essere una grossa città. Se le cose stanno in questi ter¬ mini, e se si ammette anche che gli americani non vogliano attac¬ care per primi, sfruttando la loro superiorità numerica per tentare di colpire tutte in una volta le basi missilistiche sovietiche, in modo da privare il nemico della sua forza di ritorsione (impresa che appare disperata, anche disponendo di 2 mila missili), resta da dom^darsi che cosa impedisca agli Stati Umti di ritirare dall’Europa le basi IRBM, evidentemente superflue. Il dei missili Jupiter dalle basi ita¬ liane e turche, in effetti, è stato evidentemente causato dal sempli¬ ce fatto che tali missili, e di conse¬ guenza tali basi, erano ormai supe¬ rati tecnicamente. E’ estremamen¬ te probabile che nel giro di un anno o due tutte le basi missili¬ stiche di terra in Europa debbano seguire la stessa sorte, e non è del tutto improbabile che in una data successiva, probabilmente localizza¬ bile intorno al 1967, anche i Eo- laris possano essere ritirati. Un passo auspicabile Tuttavia, sarebbe altamente au¬ spicabile che gli americani non aspettassero ancora quattro anni * mettere in atto un’operazione del genere, ma comprendessero l’oppor¬ tunità politica di un’azione imme¬ diata. Con la sproporzione attuale fra il ” deterrente minimo ” dei rus¬ si e r« arma totale » che gli ame¬ ricani sembrano voler ancora per¬ seguire, anche un solo Polaris nel Mediterraneo è chiaramente provo¬ catorio: poiché esso non è essen¬ ziale alla difesa del suolo america¬ no, è difficile per chi si trova dal¬ l’altra parte non pensare che il suo scopK) sia quello di attaccare. Nel 1959, quando gli americani erano convinti che i russi godes¬ sero di un’immensa superiorità nei loro riguardi nel campo degli ICBM, essi erano altrettanto convinti che i russi si fossero poco curati di costituirsi una forza di IRBM. I 700 missili intermedi oggi puntati sull’Europa occidentale sono quin¬ di, con ogni evidenza, una contro¬ forza, la cui costituzione è stata dettata dall’installazione degli IRBM americani in Europa, e che il ri¬ tiro di questi ultimi renderebbe a sua volta inutile. Nel difficile negoziato per il di¬ sarmo, il ritiro delle basi missilisti- che americane dall’Europa, Polaris compresi, sarebbe al tempo stesso per gli americani il passo meno co¬ stoso e quello maggiormente suscet¬ tibile di benefiche ripercussioni psi¬ cologiche. ALDO CIOBBIO I baroni del cemento (III) I feudi dell’ingegner Pesenti Sarebbe assurdo che la politica di un maggiore intervento del¬ lo Stato per realizzare uno sviluppo economico più equilibrato, propugnata dalla sinistra, consentisse all’ing. Pesenti ed agli altri Grandi Baroni del cemento di moltiplicare, nei prossimi anni, con i sopraprofitti di monopolio, i loro patrimoni ancor più rapidamente che nell’ultimo decennio. di ERNESTO ROSSI ^ELL’ULTIMO punto della ” nota industriale ”, pubblicata sui giornali del 12 aprile, alla quale nti sono riferito nei miei due precedenti articoli, i Grandi Baroni affermano che ” l’incidenza del cemento sul costo globale di una costruzione popolare è, in inedia, del 2%; per le opere publiche varia tra il 5 e il 6% una riduzione del suo prezzo non po- |rebbe, quindi, modificare in misura apprezzabile né il costo delle case popolari, né il costo delle opere pubbliche. Il somaro e il contadino Nessuno può prendere sul serio queste percen¬ tuali, calcolate su statistiche fasulle, senza tener con¬ to delle ripercussioni ” a cascata ” che le differenze snche minime nei prezzi delle materie prime possono avere sul costo del prodotto finito. Ma anche se le volessimo prendere per buone non potremmo accet¬ tare il ragionamento che i Grandi Baroni basano su Queste percentuali per affermare la innocuità del caro-cemento. In polemica con Giacinto Motta, consigliere de¬ legato della Edison, su La Riforma Sociale del set¬ tembre-ottobre 1934, Luigi Einaudi ricordò che il OTedesimo argomento "era usato dagli elettrici per dimostrare che centesimo più, centesimo meno, non francava la spesa ai consumatori di far baccano per Pwhe lire o poche diecine di lire l’anno; dai ri- saiuoli per chiarire che non tornava conto strillare ^ la minestra costava cinque centesimi di più a te¬ sta, se il riso veniva fatto salire da 30 a 60 lire per quintale; dai granicultori per persuadere che le 20 lire di più per quintale, bastevoli per rendere remu perativa la coltivazione del frumento, si traducevano jn miseri venti centesimi per chilogrammo, pagati in più per U pane " E’ l’argomento principe — osservava Einaudi di tutti gli industriali i quali chieggono la prote¬ zione doganale e fanno il conto che, alla perfine, a proteggere con dazi del cento per cento sul prezzo oll’ingrosso della siderurgia, il fitto della casa per l’in¬ quilino aumenta in proporzioni praticamente non av¬ vertibili Nessuna persona di buon senso poteva essere convinta da questi argomenti. ” Tutto, nella catena economica, comincia dal guadagno o dalla minor perdita di diecine e diecine di milioni per il produttore e finisce in soldi e in centesimi per il consumatore Il consumatore non organizzato, che non fa bac¬ cano o non riesce a farsi ascoltare dai governanti, non si può rivalere su altri dei centesimi di maggiori spese che gli cascano addosso, e ” fa la figura di quel somaro sul cui groppone il contadino aveva caricato un quintale di frumento, e vedendolo ritto sulle gambe pensò; ben potrei caricarlo ancora del peso di una emina, e poi di una coppa, ed ancora di un cucchiaio; e vedendolo sempre ritto, andò caricando, l’un dopo l’altro, cucchiai e cucchiai, sicché ad un certo punto, al chicco marginale, il somaro stramaz¬ zò a terra, né volle o potè più rialzarsi ”. Troppi colleghi aveva l’ing. Motta — osservava Einaudi — pronti a fare il suo stesso calcolo dell’in¬ cidenza perché il somaro non cadesse a terra. Mille volte abbiamo sentito ripetere gli stessi pseudo ragionamenti dai successori dell’ing Motta alla direzione della Edison, prima che l’industria elettrica venisse nazionalizzata; ed ancora oggi li sen¬ tiamo continuamente ripetere dai loro colleghi delle industrie parassitarie. Né può esserci di alcun con¬ forto il sapere che, più di duemila anni fa, questa forma di argomentazione era conosciuta dai sofisti greci e che è stata poi chiamata ” sorite ” in tutti i trattati elementari di logica formale. Erba trastulla La lettura dei bilanci e delle relazioni alle assem¬ blee annuali degli azionisti delle tre maggiori società che dominano il mercato nazionale del cemento — Italcementi, ” Unione Cementi Marchino ” e ” Calce e Cementi di Segni ” — non ci può dare alcun aiuto per riconoscere quali sono stati i loro effettivi pro¬ fitti durante gli ultimi dieci anni. 2S Se così non fosse, l’ing Carlo Pesenti non po¬ trebbe continuare a denunciare allegramente al Fisco — che basa i suoi accertamenti su siffatti bilanci — 30 soli milioncini di reddito annuo; mentre, anche a lume di naso, chi possiede un patrimonio mobiliare qual è quello del Grande Barone del cemento ed ha la sua posizione nel mondo degli affari non può ” va¬ lere ” — come dicono gli americani — meno di un miliardo l’anno (1). Il conto economico della Italcementi per il 1962 segna quattro sole cifre dalla parte dei ” profitti ” e quattro dalla parte delle ” spese invece del fattu¬ rato, porta (in 43 miliardi e 981 milioni) il ” ricavo vendita prodotti e diversi E’ questa la cifra del ricavo lordo complessivo od è una cifra già depurata da qualche titolo di spesa? Che cosa significala pa¬ rola ” diversi ”? Se nei ” diversi ” sono compresi, come credo, i redditi dei titoli, perché non vengono tenuti separati dalla vendita dei prodotti? Il conto economico porta al passivo, in una sola voce, 28 miliardi e 69 milioni per ” costo di produ¬ zione E’ evidente che in cifre tanto grandi, corri¬ spondenti a voci così generiche, è possibile nascon¬ dere tutto quello che si vuole. La stessa osservazio¬ ne va fatta per le cifre segnate nel bilancio patri¬ moniale che porta all’attivo, senza alcuna specifica¬ zione: 73 miliardi e 679 milioni di ” impianti e mac¬ chine 16 miliardi e 722 milioni di "partecipazio¬ ni ’’; 4 miliardi e 45 milioni di ’’ titoli di credito a reddito fisso”; 9 miliardi e 135 milioni di "crediti verso banche ”; 7 miliardi e 978 milioni di ” crediti verso società collegate” (alla quale ultima cifra so¬ no contrapposti, al passivo, soltanto 13 milioni per "debiti verso le stesse società”). Collegamenti eoi Valicano La relazione del consiglio di amministrazione è di dieci pagine, con larghissimi margini, dedicate per un terzo alla commemorazione del presidente defunto, al progresso dell’economia italiana, allo svi¬ luppo dell’industria del cemento, all’aumento della produzione e del consumo nei diversi paesi del MEC, alla incidenza dei costi dei principali materiali da costruzione sul valore complessivo degli alloggi, e ad altre notizie del medesimo genere, che si possono leggere anche nei bollettini di statistica e nelle pub¬ blicazioni delle organizzazioni di categoria. Sole tre pagine sono dedicate ad illustrare il bilancio; in esse sono esposte, per le diverse voci, le differenze risul¬ tanti in confronto all’esercizio precedente, che chiun¬ que sappia fare la sottrazione potrebbe calcolare per proprio conto (2). Come si può consentire che continuino a pub¬ blicare situazioni contabili così ermetiche e relazioni piene di chiacchiere senza costrutto anche società quo¬ tate in Borsa, che producono beni di prima neces¬ sità (qual è il cemento) con un giro di affari per pa¬ recchie diecine di miliardi ogni anno? (3). Per capire quale pericoloso centro di potere eco¬ nomico (e quindi di potere politico) è la Italce- menti nel nostro Paese bisognerebbe conoscere i suoi collegamenti con le altre società industriali e con le società finanziarie e bancarie, italiane e straniere. Ma il nostro anacronistico ordinamento giuridico delle società per azioni non consente alcuna fruttuo¬ sa indagine di questo genere neanche agli uffici studi delle maggiori banche. Per mio conto non sono riuscito a sapere neppure quali partecipazioni 1 mg Pesenti ha, in proprio o attraverso le società da lui controllate, negli istituti di credito (Banca Provin¬ ciale Lombarda, Piccolo Credito Bergamasco, Credi¬ to Commerciale, Istituto Bancario di Roma, ecc.) e nelle società assicuratrici e finanziarie (Bastogi, Ital mobiliare, Fincomind, SOFIS, Fidia, RAS, Sodete Anonime International de Financement di Basilea, (1) Ling. Carlo Pesenti. oltre ad essere gaio della Italcementi, (società con un capitale di 32 ”",'‘"“1, della quale possiede in proprio, o attraverso i t^ig‘*“ : il maggiore pacchetto azionario) è anche „ato e? nella finanza italiana - 1962 -.amministratore delegato delle società: Italmobillare (cap. IO miliardi). Cernente di Sardegna (2 miliardi). Cementerie delle Puglie (1 mi nardo e mezzo). Cementerie Siciliane (1 SACELIT - Manufatti cemento (500 milioni), Cementer Apuane (360 milioni), Cementi Portland C*®® .milmhU- “Jf. liana SACELIT (200 milioni) Calci Idrate d Ital^ J,?flojd), noni); presidente delle società: Nitro Cellulosa (6W milioni). Cementeria di Livorno (440 milioni). Industria Meridional Imballaggi (300 milioni). Onicine Trasformatori Elettr ci 122 milioni). Soterna (100 milioni); '■iceprcsidente delle so cietà: Lancia Fabbrica Automobili (6 miliardi). Union Adriatica di Sicurtà (4 miliardi e 320 milioni). Ferr